Con una primavera quanto mai precoce il mese di marzo ha portato in terra lombarda anche una fioritura di iniziative dedicate al mezzo fotografico: oltre all’ormai consueta MIA Photo Fair di Milano, la settimana appena trascorsa ha segnato l’esordio del Brescia Photo Festival, che ha riattivato la circolazione del sistema culturale urbano con un una serie di eventi e convegni a tema, dando asilo anche ad alcuni esponenti di fama internazionale. Negli spazi del Museo di Santa Giulia per l’occasione hanno inaugurato ben tre mostre dedicate al fotogiornalismo: due retrospettive sulla celebre agenzia Magnum, oggi al suo 70° compleanno, e un’antologica di Steve McCurry, punta di diamante dell’intero festival. Magnum First, la prima di nome e anche di fatto, ripropone le immagini originali delle primissime esposizioni del gruppo in Austria, rinvenute per caso nel 2006 in una cantina di Innsbruck. Gli esemplari esposti portano la firma dei fondatori dell’agenzia, nonché padri assoluti del fotogiornalismo mondiale: tra questi si possono trovare alcune chicche come i 17 scatti con cui Henri Cartier-Bresson ha accompagnato Gandhi nei suoi ultimi giorni di vita, i colli di volpe delle signore londinesi di Inge Morath e i corpi riarsi dalla calura sul set de “La regina delle piramidi” nel servizio di Ernst Haas.
L’altra invece alla francese, Magnum La Première fois, racconta di un’altra prima volta, quella in cui i membri del gruppo hanno abbandonato il solco tracciato dai maestri per disegnare da soli la propria strada. A 20 di loro è stato chiesto di identificare il reportage che ha segnato la svolta nella loro carriera; dalle scelte di ognuno è nata una mostra presentata al Festival di Arles nel 2012 e qui riproposta, con grandi nomi come Robert Capa, Alex Webb, Bruce Gilden e Harry Gruyaert: reporter che hanno perlustrato e mappato i quattro angoli del pianeta, dalle terre più lontane al salotto dei vicini di casa e a un certo punto hanno capito di aver inventato qualcosa di nuovo. La mostra presenta più di un centinaio di scatti in cui scorre ancora viva la storia, a volte vivida come una ferita spellata, altre bella come una cartolina d’epoca; una carrellata di esemplari che cerca di essere il più esaustiva possibile, tanto che dove mancano le fotografie intervengono le riproduzioni video, un medium un po’ spiazzante forse rispetto alla bellezza delle superfici fotosensibili, ma che a livello documentario raggiunge in pieno, perdonate il gioco di parole, l’obiettivo.
La mostra dedicata a Steve McCurry invece, desta subito qualche perplessità: una rassegna fotografica intitolata Leggere sulle prime non può che suonare un po’ strana. I dubbi però sono adeguatamente fugati all’entrata: la lettura è il tema attorno a cui ruota l’intera esposizione: circa 70 immagini scattate in svariate parti del mondo tra gli anni ’80 e il 2015 e accomunate, oltre che dallo stesso autore, dal fatto che i soggetti siano immortalati in compagnia di un oggetto da sfogliare. Anche l’ispirazione dell’evento è nata da un libro: la rassegna che nel 2016 la casa editrice Electa ha pubblicato in onore dello stesso McCurry, star assoluta della fotografia moderna, conosciuto dai più per gli intensi primi piani di giovani ragazzine afghane, occhi enormi e capo velato. Sfortunatamente però, se per un volume la tematica ha funzionato alla grande – il libro a quanto pare è già diventato un bestseller – come filo conduttore di un’esibizione ha mostrato qualche segno di cedimento. Pur essendo sicuramente un tema affascinante e certo di grande valenza sociale – non è mai il momento sbagliato per ricordare i pregi e l’importanza della lettura – trasportato sulle pareti di uno spazio espositivo ha assunto un retrogusto di pubblicità progresso che non riesce a convincere fino in fondo.
Una volta all’interno l’impressione che le cose siano un po’ sfuggite di mano viene confermata e amplificata dall’allestimento curato dallo scenografo Peter Bottazzi, con il white cube animato da strutture simili a fogli svolazzanti, che sulle prime sembrano un po’ eccentrici, poi forse piacciono per l’assonanza con pagine sfogliate e la seduzione zen naturalmente insita nella carta bianca. Tra un’orecchia e l’altra si svelano le foto densissime, coloratissime, speziate e tecnicamente impeccabili di Steve; un’esplosione di dettagli, atmosfere e profumi che corre sul filo di diagonali perfette. Qui troviamo il vecchio mercante di semi di Sana’a, nello Yemen, il ragazzino birmano che legge un fumetto sdraiato su un marciapiede, il giovane assorto appoggiato al dorso di un elefante nel bel mezzo della giungla thailandese. Queste istantanee, e soprattutto il pannello all’entrata, raccontano che la lettura ha due dimensioni: l’immersione e l’isolamento, e celebrano il potere sciamanico della carta stampata di astrarci completamente dalla realtà che abbiamo intorno, sia esso il traffico della metropoli o le macerie di una città bombardata. A un’analisi più attenta però solo qualche soggetto è alle prese con un romanzo, gli altri sfogliano quotidiani, quaderni di scuola, libri di preghiere, forse un libretto delle istruzioni.
Di propriamente libresco ci sono solo le citazioni letterarie disseminate qua e là da Roberto Cotroneo: sincopate nella prima sala, nella seconda si staccano dalle pareti per farsi tramezzi volatili sospesi al soffitto ad altezza uomo. Questa sorta di selva in cui il visitatore è costretto a camminare va a comporre un’antologia di splendidi aforismi dedicati alla lettura; una soluzione nata per fornire una sorta di commento alle immagini, che in quanto a discrezione ha finito evidentemente per sfuggire di mano. Quella che nasceva come una semplice chiave di lettura alla fine rischia di prendersi tutta la scena. La sensazione a posteriori è che il tema sia un tentativo di dare un filo conduttore ad una raccolta di opere che sono perfettamente eloquenti anche da sole.
Molto più esaustivo di un’arbitraria associazione, l’intento di McCurry in fondo era sempre e solo questo: essere l’occhio che perlustra il mondo, creare una sorta di atlante globale di gesti ed espressioni, incastonarle in un gioco di simmetrie e contrasti cromatici con un manierismo della messa a fuoco che rasenta la perfezione. Questo concetto si ritaglia uno spazio solo nell’ultima sezione della mostra, che rientra nei binari presentando una serie di cataloghi dell’artista, alcuni già noti, altri inediti; cosa che sulle prime rischia di confonderla con il bookshop, ma si salva in corner grazie alla presenza delle teche. Riemersi nel bookshop vero e proprio, l’impressione finale è che forse, al di là dell’urgenza culturale, il vero filo conduttore l’abbia trovato Umberto Eco, proprio in una di quelle citazioni appese: la fotografia, come la lettura, non è altro che un’immortalità all’indietro.
Federica Fontana