Vinca il più forte!

La vendetta è nelle mani di Dio non nelle mie

La famosa spear di Roman Reigns
Nella soporifera società culturale italiana, specie quella d’élite fiera del suo pacifismo ad oltranza, è stata bandita ogni forma di contrapposizione, competizione, dialettica accesa, scontro, invettiva, così che ciascuno può tranquillamente crogiolarsi nella culla ondeggiante del rispetto, in un clima di sicura reciprocità. Ci si indigna, certo! ma verso un altrui e un altrove (di solito politico), e la ferocia non è mai argomentativa, logica, di pensiero, linguistica: soprattutto, non è mai interna. È una ferocia dislocata – quando va bene – nelle comode pieghe delle saghe famigliari, del noir, del giallo paesano, oppure, ancora più comodamente, vive e vegeta nelle logiche (naturali) delle bande criminali, narcotrafficanti, camorristi et similia. Altrimenti, si trasforma nella masochistica e più lacerante introspezione, dolorosissima, che indulge al pietismo qualunque buon lettore, novello samaritano. Nelle vette letterarie si accanisce (sempre la ferocia) contro il genere umano, le sue capacità distruttive, i suoi enormi difetti. In questa società culturale, della lotta fisica neanche a parlarne, ed ogni oncia di energia muscolare esibita nelle molteplici esibizioni-spettacolo diventa violenza imitabile e perciò censurabile. Il sangue, poi!, soltanto a nominarlo c’è da svenirci, e a vederlo sulla scena, seppure in opere d’arte d’indiscutibile valore (Revenant, ad esempio, di Alejandro González Iñárritu), induce nei critici smorfie, disgusti, prese di distanza: è violenza gratuita, raccapriccio a bella posta (dicono). Al bando l’orsa assassina che sbrana DiCaprio, e via libera alle estenuanti e ripetitive dinamiche di coppia e famigliari, meglio se con il lieto fine di un gran brutto sogno (Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese). Ecco, a questa straordinaria pacifica società culturale italiana, immobile fino allo sfinimento del pensiero e dell’immaginazione, crudele nel chirurgico veto di ogni impatto, scontro, combattimento che sia (fisico o dialettico), non andrebbe di certo a genio un evento spettacolare come sa essere Wrestlemania, punta di diamante annuale del wrestling.
Le ore notturne – per via del fuso orario – facilitano la solitudine e la visione, lontano dagli echi dei dibattiti sulla violenza in televisione e sul web, e il corpo-a-corpo di uomini e donne allenati, acrobatici, tenaci, competitivi, addestrati al dolore, soddisfa un’esigenza mai sopita di sfide che rasentano la morte (ma in questo caso non si muore mai). Si vince per schienamento o sottomissione (talvolta per count out) con regole variabili, modificate alla bisogna, con arbitri benevoli, anche prezzolati, facili da distrarre, co-protagonisti essenziali nella strategia globale. Non esiste pareggio e – tranne rare eccezioni – non c’è un tempo prestabilito: si finisce quando il conto di tre sancisce il vincitore. E la tensione sale di fronte ad un esito sempre incerto. Si lotta a singoli, a coppie, a tre o quattro fino alla fantasmagorica royal rumble; si lotta con coraggio e determinazione, si vola sopra le corde, tra le corde, con avvitamenti, si plana come catapulte sopra iper-addominali, si sfoderano colpi letali, mosse dai nomi mitologici che tutti aspettano di vedere come un’apparizione improvvisa (la società culturale avrebbe detto: epifania). Si resiste per non soccombere, per orgoglio, per ambizione, per voluttà, di fronte a platee estese, paganti, accanite nella tifoseria. Conta l’abbigliamento, l’eccentricità, il personaggio che si interpreta, contano le alleanze e le rivalità, le amicizie, e le contrapposizioni furenti che si trasformano in trame che diventano sceneggiature vere e proprie. E assai raffinate, dove i dettagli psicologici e gli ostacoli sul cammino determinano lo sviluppo dell’intreccio narrativo (ce n’è da imparare per i nostrani sceneggiatori – e vale quanto detto nella Graticola del numero sul Cinema, p. 6: http://tinyurl.com/l22ey6y). L’obiettivo è sempre quello: vincere il titolo; cioè la libertà dalla tirannia della trama che finalmente trova una risoluzione, dai limiti del proprio destino che può trasformarsi in un’altra storia; la soddisfazione è alzare la cintura al cielo, sfottere l’avversario, incalzarlo sulle sue debolezze. Ogni tanto il colpo basso, la scorrettezza, il tradimento. I conti si regolano sul quadrato davanti a quello stesso pubblico che ride, si accalca, sbraita, si sbraccia, con il fiato sospeso su ciò che accadrà: gli amici di ieri sono i nemici giurati di oggi, le promesse sono da marinaio, gli insulti sono veri. E nei periodi più accesi volano scale, sedie in ferro, mazze, chiodi, e sullo sfondo compaiono strisce di sangue, qualche evidente livido, qualche contusione, e – talvolta – qualche infortunio più serio, come in tutti gli sport, in tutte le esibizioni, in tutti gli spettacoli. Nessuno s’impressiona, nessuno si spaventa, compresi i numerosi bambini presenti: siamo fatti anche di sangue. C’è un padrone che risolve i casi più intricati, una famiglia al comando divorata da lotte intestine, c’è la magnificenza di uno spettacolo impeccabile (luci, effetti, scenografia, regia, costumi), la professionalità dei giornalisti (pronti a scappare quando la lotta si sposta sui tavoli, fuori dal ring), la serietà del lavoro, l’economia commerciale che gioca al rialzo. C’è il ritmo incalzante degli incontri settimanali, degli eventi mensili, dei takeover e dei kick-off, prima dell’esplosione di Wrestlemania. E se aggiungete le telecronache italiane dell’impareggiabile coppia Franchini&Posa (cui si affiancano Salvatore Torrisi e Andres Diamond) condite di lazzi, sbeffeggi, fatti personali, desideri mai reconditi, appetiti sessuali, e, ovviamente, commenti dell’incontro con acrobazie linguistiche e metafore inusuali, siete a tu-per-tu con un misto di sceneggiatura, recitazione, teatro, nella dimensione più fisica, più combattuta. Alla fine, senza rancori, si rientra nelle fila, cioè negli spogliatoi, a farsi la doccia.
Non è, infatti, il wrestling luogo di vendette vere, come non lo è la letteratura (vale il sottotitolo: viene da Revenant); le vendette vere si consumano nella noia del rispetto reciproco, nell’artificiosa società culturale italiana. Qui occorre battersi a viso aperto, con le mani e i piedi (oppure con gli argomenti), essere sprezzanti se serve, perfidi anche, a dispetto delle reazioni, e soprattutto senza cura di accattivarsi il pubblico, o di piacere ad un’umanità che veleggia con proprie regole di massa, imprendibili. Che ciascuno si costruisca la propria indefinita natura giorno dopo giorno con quello che ha a disposizione, guardandosi bene dal tradirla nell’infingimento di una patetica pacificazione universale.

Michele Mocciola

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