Di recente gli animi italiani si sono infiammati su questioni diverse eppure accomunate dal medesimo ambito scientifico di appartenenza – la medicina – e dalla rivendicazione, sempre più accanita, di una sorta di diritto individuale alla scelta della terapia in caso di malattia; diritto che, ovviamente, si assume assoluto, indiscutibile e non negoziabile. Le terapie proposte a base di cellule staminali (il c.d. caso Stamina), l’obbligo di vaccinazione dei minori, l’efficacia delle cure omeopatiche (dopo il caso del bambino morto, pare, per un’otite) hanno proposto una bella miscela su cui accapigliarsi. E gli italiani, secondo un costume abituale risalente (rinvio a Graticola del n. 11, p. 5:
goo.gl/aggzsC), non si sono tirati indietro. Si sono formate le fazioni, si sono aperte le danze nei talk-show (volgarmente: parlatori), si è accesa la rissa. Ognuno rivendica le proprie ragioni, adduce risultati, mostra un proprio sapere; a volte le tesi sostenute sono ammorbidite da qualche
distinguo, a complicare il percorso di ragionamento. Gli scienziati, coloro che si sono dedicati per professione alla materia specifica facendo della ricerca la propria dimensione di vita, vengono coinvolti per ampliare le conoscenze, offrire dati, esporre un metodo, ma in un’epoca di soli alfabetizzati lo sforzo per una reale discussione è vana cosa. Il
quisque de populo, l’uomo della strada insomma, vorrebbe raccapezzarsi, orientarsi, perché non ha idee precise, ma sembra costretto a scegliere perché il ring non offre alternative tra i combattenti: o con me o contro di me.
In realtà, c’è una strada diversa: osservare, ascoltare e ricorrere ad uno strumento assai affidabile di cui ciascuno ha piena facoltà: il pensiero logico. Quindi, proviamo a mettere le cose in ordine.
Parliamo innanzitutto di maggiorenni, soggetti per legge autorizzati ad assumere scelte in piena ed indiscriminata autonomia (salvi i casi di interdetti o simili). Chi può negare loro di scegliere la terapia che più preferisce, indipendentemente dalla sua efficacia o meno; gli organismi ufficiali – scientifici e pubblici – possono attuare ogni campagna di informazione perché la scelta ricada su quelle terapie rivelatesi efficaci (statisticamente efficaci, ovviamente), secondo metodi di sperimentazione consolidati da tempo, ma alla fine la decisione è individuale e non sarebbe concepibile, nelle moderne democrazie, l’imposizione di un determinato trattamento, se non quando si tratta di tutelare gli altri (pensate al trattamento sanitario obbligatorio), oppure di salvaguardare la collettività dalla diffusione di malattie infettive pericolose. E neppure è ipotizzabile l’imposizione della propria prospettiva, o di una graduatoria di scelte di vita, in cui alcune sono preferibili alle altre: la democrazia è in simbiosi con il binomio libertà/responsabilità, sicché ogni scelta è ugualmente accettata. Bisogna farsene una ragione.
Si potrebbe obiettare che c’è troppa disinformazione, la rete pullula di fake-news, non si è realmente informati, quindi la decisione è viziata in partenza. Rispondo d’acchito. Le società contemporanee oltre che democratiche sono alfabetizzate, perché la libertà presuppone la possibilità di conoscere, ma essere istruiti è solo il primo passo, oggi, e non basta, perché quelle rutilanti società esigono un lavoro personale fatto di attenzione, capacità di analisi, ricerca, e una buona capacità di ragionamento. Non è più tempo in cui qualcuno fa il lavoro sporco per te. Devi organizzarti, documentarti, ricercare in rete ma, prima di tutto, è imprescindibile essere in grado di ragionare secondo schemi di logica deduttiva, confrontando le diverse tesi, per discernere nel mare magnum delle affermazioni. C’è poco da rivendicare in termini di libertà di scelta se ho delegato ad altri questo impervio lavoro di conoscenza: libertà e democrazia sono inconciliabili con una permanente assistenza, e, al contrario, presuppongono età adulta, maturità, responsabilità. Per il resto ognuno scelga secondo le proprie convinzioni.
Fatto questo primo passo, la domanda successiva è: la mia libertà di scelta deve sempre e comunque essere tutelata, o sostenuta, dallo Stato? La risposta è necessariamente negativa. La libertà che rivendico è individuale e affonda le sue radici in convincimenti e idealizzazioni prodotti da un percorso esclusivamente personale; l’intervento statale, al contrario, è collettivo, pubblico, e coinvolge una molteplicità di soggetti portatori – appunto – di idee e percorsi personalissimi, spesso tra loro incompatibili. Quindi, lo Stato si trova di fronte ad una congerie di rivendicazioni impossibili da coniugare, e, a fronte di questa impossibile conciliazione, deve per forza di cose affidarsi alle soluzioni che, allo stato dell’arte, e alla prova del tempo, si sono rivelate più solide, più efficaci, più utili. Ogni organizzazione, e a maggior ragione uno Stato, deve avere dei riferimenti stabili cui orientare le proprie scelte e le proprie azioni; paradigmi coincidenti, di solito, con i risultati di percorsi prolungati nel tempo, sedimentati, che offrono maggiore sicurezza di riuscita e sono in grado di rassicurare una specie – quella umana – sempre in balia dell’incertezza. E così, la sperimentazione medica segue determinati protocolli di metodo elaborati nel corso dei secoli (il doppio cieco, ad esempio) per saggiare l’efficacia o meno di un farmaco o di un preparato in relazione alla cura di una determinata patologia, e per rivelarne l’eventuale tossicità. L’appello ai singoli risultati o alle casistiche – le più varie – si risolve in un approccio assai empirico, e pertanto poco affidabile per una risposta pubblica alla collettività. Se un certo preparato non supera quel metodo di sperimentazione non può ritenersi efficace, valido, curativo. Nel corso del tempo, quel tempo che si allunga impietoso dietro e davanti ciascuno di noi, i riferimenti possono rivelarsi fallaci, o non più adatti, e possono, quindi, essere sostituiti per le più svariate ragioni, questo è vero, ma è un profilo che appartiene più alla storia che al presente, perché nel frattempo è d’obbligo affidarsi a ciò che a quel dato momento si presenta come la via d’uscita più benefica. Magia, empirismo, doppio cieco, sono un esempio dei mutamenti epocali nel campo medico, e questi cambiamenti hanno seguito lo sviluppo naturale delle società.
Fatta chiarezza nel rapporto tra libertà individuale e compiti dello Stato, le conseguenze sono ovvie (e direi, banali): lo Stato assicura strumenti e mezzi, personale e strutture, per la cura delle malattie – tutte le malattie – avendo come riferimento stabile la scienza medica attuale e i suoi protocolli sperimentali, e, in più, i principi che presiedono a quei protocolli, e questo per tutte le ragioni appena sopra esposte; in questi termini assolve egregiamente il suo compito. Può essere aperto a proposte di terapie diverse, nuove, innovative, regolamentandone l’erogazione da parte dei privati; può cioè garantire che metodi alternativi siano insegnati e praticati secondo i propri statuti conoscitivi, ma non può derogare, nell’ambito delle proprie strutture, e caso per caso, al rispetto del metodo prescelto (ufficiale) e dei suoi principi, pena il caos e l’arbitrio. Ed allora, una volta che una specifica terapia, o un determinato preparato (o categoria di preparati), non superano i test, cioè i protocolli sperimentali adottati dallo Stato, rivelandosi, sotto questo profilo, inefficaci, perché mai quello stesso Stato dovrebbe consentirne la somministrazione attraverso le sue strutture? È sufficiente che consenta all’individuo di rivolgersi liberamente ai privati i quali, nell’eventuale cornice legislativa predisposta per garantire una minima regolamentazione dello specifico settore (omeopatia, osteopatia, ecc.), offrono terapie alternative, differenti per metodo e struttura. La chiarezza pubblica della ufficiale invalidità di quelle terapie, prive del sigillo dell’autorizzazione statale (fatti salvi, ovviamente, i controlli onde evitare la distribuzione di prodotti tossici o nocivi), delimita l’ambito dell’intervento statale e riconosce ai pazienti, così informati, la libertà e la responsabilità delle proprie scelte.
Se lo Stato segue una certa impostazione e uno specifico metodo nel campo medico, e assicura ai cittadini i mezzi per affrontare ogni patologia, e garantisce – anche economicamente – la distribuzione di quei soli preparati che ha ritenuto efficaci e validi perché hanno superato il certo metodo di ricerca, perché non deve riconoscere ai singoli la più ampia libertà di rivolgersi a strutture private, promotrici di altri metodi, se di questi ultimi sono, i singoli, convinti assertori? Il paternalismo statale è più vicino ai sistemi totalitari che a quelli democratici.
Nel contempo, se rivendico la libertà di curarmi come e meglio credo, secondo personali intuizioni, riferimenti ideali, convinzioni, perché, dopo avere scoperto sulla mia pelle l’inefficacia di quella terapia o di quel farmaco, vado a lamentarmi presso lo Stato che non aveva mai autorizzato o suggerito o pubblicizzato, e tantomeno somministrato, né terapia né farmaco? La pretesa individuale di essere liberi, e nello stesso tempo costantemente assistiti a fronte di scelte personali rivelatesi improvvide, prolunga l’originaria condizione di immaturità: prima mi muovo senza cognizione e alla rinfusa, dopo vado a rifugiarmi, piagnucolando, tra le gambe dei genitori.
Purtroppo, si oscilla confusamente tra inni libertari e pugno duro dello Stato in una evidente confusione di pensiero.
Nel caso stamina o contesti simili, ad esempio, cioè terapie a base di cellule staminali proposte per patologie assai gravi e, allo stato della scienza medica, incurabili, verificata secondo protocolli sperimentali consolidati, e valutazioni di organismi scientifici pubblici, l’inidoneità curativa della terapia proposta, è ben d’obbligo per lo Stato rifiutarne la somministrazione nelle proprie strutture. Residua la libertà di ciascun paziente, informato a dovere del rifiuto pubblico, di rivolgersi a chicchessia anche solo per illudersi che c’è sempre un’altra possibilità, una diversa via d’uscita dal dramma solo e tutto individuale. Ed allora, il pugno di ferro statale, attraverso i suoi meccanismi giudiziari, onde impedire al paziente informato di scegliersi la sua personale soluzione, è una forma invasiva della libertà di ciascuno, azzerandosi in un colpo solo le pretese delle reali democrazie: conoscenza e responsabilità.
E non è finita, perché questa invasività non è applicata sempre al medesimo modo, ingenerando confusione su confusione.
Nell’omeopatia, ad esempio, lo scenario non cambia rispetto alle terapie sperimentali cui si è accennato. Infatti, nonostante il mancato riconoscimento scientifico dell’omeopatia da parte degli organi sanitari pubblici e degli scienziati in genere (lo scienziato S. Garattini ha definito il prodotto omeopatico acqua fresca), i preparati omeopatici sono regolarmente distribuiti e consigliati da medici e farmacisti e a nessuno è mai venuto in mente di perseguire giudiziariamente chi mette sul mercato preparati che, stando ai parametri scientifici ufficiali, non hanno alcuna idoneità di cura di qualsivoglia patologia.
Quindi, soluzioni e interventi differenti in questioni che richiederebbero approcci teorici chiari e ben definiti, soprattutto uniformi: l’argomentazione logica si è fatta da parte, lasciando il posto ad altri percorsi di pensiero, più emotivi, forse pietistici (un malato incurabile è diverso da un paziente affetto da raffreddore), che orientano soluzioni abborracciate, disordinate, e – alla lunga – improduttive.
Affrontando il tema dei vaccini, il ragionamento deve necessariamente spostarsi sui minori cui sono destinati, e le cose si complicano tra potestà dei genitori da un lato, e potestà statale d’intervento dall’altro. Un dato si staglia all’orizzonte di questo percorso di pensiero: ciascun vaccino serve a evitare la diffusione di un determinato virus, cioè – più volgarmente – ad evitare la diffusione di malattie infettive che, quando prendono piede, avanzano inesorabilmente (La peste, giunta dall’Oriente, penetrò in Germania per la Boemia. Viaggiava senza fretta, al suono delle campane, come un’imperatrice. M. Yourcenar, L’opera al nero, Feltrinelli, p. 80). Quindi, il problema non è esclusivamente individuale ma anche e paritariamente collettivo. Meno vaccinazioni più possibilità di espansione del virus o dell’infezione virale. La necessità pubblica del vaccino non può che prevalere sulle istanze individuali dei genitori, e dovrebbe prospettarsi, inutile dirlo, come una scelta obbligata. Una contrapposizione analoga a quella di oggi sulla necessità o meno dei vaccini sarebbe stata impensabile negli anni in cui impazzava la poliomielite, decimando le gambe di tanti minori, se non la loro vita. Rileggere Nemesi di P. Roth può ammorbidire gli istinti, mentre si assapora il fascino della letteratura.
Invece, di questi tempi, dove la raggiunta sicurezza da molte infezioni virali insuperbisce tanto quanto l’affermata certezza dell’inesistenza di qualunque Dio, c’è spazio per nuovi contesti sociali a rischio. L’esistenza quotidiana occidentale potrebbe avviarsi di nuovo verso quell’elevato tasso di precarietà che tanto ha pesato fino almeno alla prima metà del ‘900, e questa volta lo farebbe sulla pelle dei minori. Il vaccino è una sorta di assicurazione per i bambini i cui primi anni sono essenziali per la costruzione delle proprie difese, ben sapendo che, pur con l’assicurazione in tasca, residua la possibilità che qualcuno venga a rubarci in casa: la sicurezza ci ha fatto dimenticare il puro e semplice caso (combinazione sincronica di eventi). Le casistiche individuali offerte in opposizione ai vaccini possono servire per mirati approfondimenti, si potrà dire – come in un’intervista di un immunologo – che occorre accortezza nella preparazione dei vaccini, ma la cerchia biologica in cui siamo inseriti, predisposta nel tempo da studi, sperimentazioni, ricerche, e produttiva di risultati evidenti (interruzione di molte infezioni virali) non può essere arrischiata per scelta di alcuni singoli. E se le scelte genitoriali di questo tipo diventano numerose, di fronte ai connessi rischi collettivi l’obbligo per legge è un passo dovuto.
Non avremo mai pace, come specie! L’insicurezza è la nostra condizione biologica, ma le formidabili facoltà cognitive, di pensiero logico misto ad immaginazione, ci traghettano verso le opposte sponde di una stabilità transitoria. Un equilibrio ragionato (e ragionevole) può esserci d’aiuto.
Michele Mocciola