Il Giudice Tal dei Tali un giorno che era di turno per gli arrestati, ebbe a che fare con un giovane condotto coi ferri ai polsi, al suo cospetto accusato di essere venuto a mani con un carabiniere – giovane anch’esso – che gli aveva, incautamente, richiesto i documenti, ignorandone l’intemperanza. Ne era scaturita una breve ma intensa colluttazione, di cui v’era traccia negli allegati – e reciproci – certificati medici che attestavano: a) per il militare: rossastre escoriazioni alle mani e tumefazioni in viso; b) per il giovane virgulto: graffi periorbitali e qualche capello in meno (poca roba). Durante l’interrogatorio il Giudice, quel giorno (e non so il perché) si lasciò andare a filosofiche riflessioni. Era giudice di carriera e di provata esperienza, e serio per di più, eppure dopo oltre vent’anni gli prudeva un certo gusto di dire la sua, abbandonate le remore di circostanza. Lui si sentiva, ora, autorizzato, ad affacciarsi al proprio balcone fiorito in primavera per dialogare con un pubblico che stimava attento alle sue parole di saggezza.
Mi rendo conto, disse il Giudice al giovane in catene, che non è semplice affrontare questa umanità; in realtà non lo era nell’Ottocento, e potrei citare fior fiori di scrittori che nero su bianco hanno attestato ciò in pagine di memorabile bellezza. Figuriamoci quanto possa esserlo ora che le cose (lo sottolineò) si sono complicate all’inverosimile; e dico cose per dire relazioni, rapporti, frequentazioni. Detto ciò, concluse, la difficoltà del vivere non è un buon motivo per alzare le mani, tanto meno su un carabiniere. La smetta, gli disse perentorio e forse anche spazientito, di ricorrere a tradizionali quanto noiosi (sbadigliò) metodi sbrigativi per risolvere questioni individuali; la smetta (lo ripeté) di scegliere la via di fuga più breve – e più comoda – dalle sue ambasce avvinazzandosi la sera con quel che ne segue – lei mi capisce. Sarebbe il caso (e si fece suadente) che lei (anche questo sottolineò) si impegnasse di più ad affrontare il mondo cercando altrove una ragione della sua esistenza, e che sia un altrove lecito, ovviamente. Crede forse che io non sappia la fatica che si fa a scendere ogni giorno nelle piazze e nelle vie, a confrontarsi con questo e con quello, a rinunciare a un poco della propria arroganza e presunzione e orgoglio, a dominare la paura e poi a riconoscerla e accettarla, a fidarsi, a guardare negli occhi e, insomma, a vivere? Lo so bene e lo sperimento, e mi verrebbe facile anche a me, talvolta, di allungare una mano o un calcio, eppure non lo faccio: troppo semplice, troppo istintivo. Invece, caromio, sa cosa faccio? Il ragazzo lo guardava fisso e stupito, con gli occhi un po’ gonfi per i graffi e il sonno non goduto nella cella. Lo sa che faccio? ripeteva il Giudice eccitato. No, non lo so, rispose con candore. Lo sapevo, replicò soddisfatto il Giudice, lo sapevo che non lo sapeva, allora glielo dico io: sfoglio delle pagine (e umettandosi l’indice ne mimava il gesto) e … leggo; sì leggo. Leggo pagine e pagine di storie fantastiche, di amori e di morti, di persone, leggo libri di autori indimenticabili e così mi riappacifico. Leggere, leggere, leggere, questo è l’antidoto al veleno che ci danno, ogni giorno, ragazzo mio. Il ragazzo deglutì e tacque. Tutti tacquero. La seduta si sciolse secondo le regole e la prassi.
Il giorno del giudizio il ragazzo se la cavò con una piccola condanna con tanto di benefici e respirò di nuovo l’aria della libertà, che quella più di tutto gli era mancata.
Passò qualche tempo, le cose andavano come al solito, quando un giorno una segretaria annunciò al Giudice Tal dei Tali – indaffarato tra le carte del suo studio – che c’era una persona che lo cercava insistentemente; il Giudice chiese chi mai fosse costui, e la cortese donna poté soltanto dire: è un giovane. Sentiamo che vuole, sentenziò il Giudice. Apparve sulla porta il ragazzo a suo tempo in catene, era sbarbato e coi capelli tirati a lucido, un’espressione pensosa. E tu che ci fai qui? chiese il Giudice, hai nostalgia del carcere?; il ragazzo sorrise, capì che era bene accolto, ed entrò.
Il ragazzo andò dritto a sedersi, era determinato nell’atteggiamento, e si mise ad attendere come se fosse stato convocato, mentre era stato lui a prendere l’iniziativa. Il Giudice era seduto di fronte e si interrogava sulle sue intenzioni, apprezzandone la sicumera. (Non è vero che si conquista con l’età e l’esperienza, questo giovane ce l’ha già, pensò). Ti trovo bene, gli disse, rimarcando il tono confidenziale; e tacque. Anche il ragazzo taceva, aspettando. Embè, gli fece il Giudice; embè cosa, rispose il giovane; cristosanto, uscì detto al Giudice facile all’irritazione, cosa vuoi da me, cosa sei venuto a fare; come cosa voglio, la lista no?, fece candido il giovane; benedettiddio, la lista? sbarrò gli occhi il Giudice; sì la lista la lista, di rimando l’altro; ma di che lista parli, io non ne so niente. Il ragazzo si aggiustò sulla poltrona comoda. Aveva occhi lucenti di un’attesa maturata da tempo. Sono qui, disse, per la lista dei libri, quelli che quando li leggi non ti viene di alzare le mani o di tirare dei calci, e ti fanno amare l’umanità, o se proprio non te la fanno amare, te la fanno accettare così com’è, e tu poi vivi meglio; e, soprattutto, non ti ubriachi e non metti le mani addosso ai carabinieri che ti chiedono i documenti. Il povero Giudice sbiancò. Sbiancò di netto su tutto il viso, e le mani gli tremavano, e pensò per un attimo che quel giovane gliela stava per fare, mettendolo sotto alle sue stesse parole. Sapeva controllarsi quel Giudice, d’età e d’esperienza, e si controllò: ah già! la lista, è vero, ti confesso che me n’ero dimenticato, hai fatto bene a venire fin qui a ricordarmelo, hai fatto proprio bene. Tacque ed ogni cosa rimase in sospensione, compreso il ragazzo, che probabilmente non aveva poi tanta fretta. Dopo poco il Giudice disse: va bene, l’avrai, torna domani, alle 11 in punto. Il giovane ringraziò in mille modi, gli sorrise e se ne andò.
Quella sera il Giudice non chiuse occhio.
Non era tanto il fatto di preparare la lista, che pure richiedeva un quale impegno, quanto di essere stato per una volta preso in parola, alla lettera. Lui aveva parlato dallo scranno di giustizia, età e severità, e l’altro, un giovane ubriacone, senza studi e censo e origini, gli aveva dato credito, e veramente intendeva affidarsi ai libri di cui lui aveva vantato le lodi per fare della difficoltà della vita un momento di felicità piuttosto che un alibi delle proprie scelleratezze. Una responsabilità di tal fatta, giurava il Giudice, non l’aveva mai sentita. Ma non si tirò indietro.
Il giorno successivo il ragazzo si ripresentò al Palazzo di Giustizia con un viso sorridente lì dove i volti erano corrucciati, gli sguardi di sbieco, e la prosopopea suonava fanfare roboanti. La solita segretaria cortese l’accompagnò allo studio del Giudice Tal dei Tali. Il giovane vide, anziché il Giudice che lui conosceva, un uomo con la barba incolta e gli occhi pesti e gli avrebbe voluto chiedere cosa gli fosse mai successo, ma si trattenne: non era il caso di concedersi certe confidenze. Sedette al suo posto e tacque.
Il Giudice era a capo chino che scarabocchiava un foglio, lo guardò appena, con sinecura, e gli disse: la lista oggi non c’è, torna domani. Il ragazzo non batté ciglio, salutò, si alzò ed uscì.
I giorni si susseguono in fretta, arrivò domani, posdomani e quello dopo ancora, e la scena si ripeteva uguale, senza il minimo cambiamento. A Palazzo di Giustizia conoscevano tutti, ormai, quel bel ragazzo che ogni giorno alle 11 in punto si presentava nella stanza del Giudice per uscirne dopo pochi secondi. Lo accoglievano chi con una pacca sulla spalla, chi con un sorriso, chi inviandogli un bacio; qualcuno tra i più socievoli gli gridava salendo le scale, come va oggi? novità?, e lui serafico: tutto come sempre, nulla è cambiato. Ed era vero, perché non era riuscito ad ottenere non una lista ma neppure un solo titolo di uno di quei libri favolosi, di cui aveva gustato il solo odore quand’era lui in catene. Gli piaceva che venisse riconosciuto e salutato, e godeva di quella sorta di frequentazione con il Giudice Tal dei Tali cui era stato ammesso, nonostante il resto. Talvolta si chiedeva l’utilità delle visite quotidiane, improduttive su ogni fronte, e s’affacciava il senso di un’attesa illusoria, e di una lista finora inesistente, ma andava avanti con una decisione che non gli era nota.
Capitò che un giorno, dopo l’ennesimo rinvio, uscendo dal Palazzo e contento di alcuni apprezzamenti fisici che gli erano stati rivolti in un contesto sempre più amichevole, si accorse per la prima volta che a pochi passi da lì c’era una grande libreria. Entro, si disse, almeno inizio a prendere confidenza e quando avrò la lista sarò pronto e saprò dove cercarli. Girò per gli scaffali con occhi di sorpresa per la quantità di libri accatastati e tutti diversi. Erano tanti, troppi per lui inesperto, e dopo un po’ che stava lì iniziò a girargli la testa. Ebbe sussulti di nausea, le scritte si accavallavano e sovrapponevano, gli scaffali gli parevano troppo pieni e lì lì per crollare, e lui sarebbe morto sepolto da una quantità indescrivibile di libri sconosciuti, e nessuno l’avrebbe più ritrovato e non ci sarebbe stato né funerale né sepoltura e… scappò via terrorizzato, e una volta a casa s’infilò nel letto con il cuscino sopra la testa e giurò a sé che mai più avrebbe messo piede in una libreria.
Ma, va da sé, che le cose non andarono così.
Una mattina di qualche tempo dopo, arrivando trafelato al Palazzo di Giustizia, che s’era fatto tardi e sapeva che il Giudice Tal dei Tali non sopportava i ritardatari, passando di corsa davanti alla libreria avvertì come un lampo tutto giallo negli occhi che lui coprì temendo di restare accecato. Cos’è stato, pensò, ma non aveva tempo di fermarsi e proseguì, e quando si ritrovò seduto davanti al Giudice in ritardo di ben cinque minuti, s’accorse di non avere fiato neppure per scusarsi. Il Giudice come sempre era occupato nelle sue cose e neppure alzò lo sguardo verso di lui gustandosi il rumore dell’affanno. Oggi sei in ritardo, come mai? gli chiese, forse non ti interessa più la lista? ritieni come tutti voialtri giovani che il tempo che non viene immediatamente riempito di cose tangibili è tempo perso? Il giovane si sentì offeso da quel giudizio perentorio e ingiusto. Erano mesi che ogni giorno, alle undici, assecondava le promesse di quel vecchio rinunciando ad ogni altro impegno, e in compenso veniva accomunato ai suoi coetanei, felici di una sconfinata spensieratezza. Ingoiò il rospo. Ma no che dice, può capitare una volta di essere in ritardo, sono umano; il Giudice lo rimbrottò: lo sarai ancora di più dopo avere avuto la mia lista, ci sto lavorando; non farti strane idee, non pensare che dopo aver letto tutti quei libri affascinanti potrai permetterti di arrivare sempre di più in ritardo, anzi dovrai essere più puntuale, più preciso, più attento, e più capirai il mondo più ti sembrerà assurdo e più dovrai adeguarti a lui. Ti sei messo in un brutto guaio, giovanotto. Il ragazzo arrossì, lo avrebbe volentieri strangolato, ma pensò che gli sarebbero toccati almeno trent’anni di carcere, a dire bene, e rinunciò all’idea. Però gli chiese un suggerimento. Il Giudice alzò finalmente lo sguardo: va bene ma fai presto non vedi come sono occupato. Il giovane gli raccontò in due parole del lampo accecante di poco prima, dello spavento che ne aveva avuto, e se lui aveva idea di cosa potesse essere. Il Giudice tra mille sbruffi d’impazienza gli rispose: c’è solo un modo per sapere cos’era: entrarci dentro; torna lì e può darsi che tutto ti sarà più chiaro, e ora vattene. Il ragazzo come un fulmine uscì dallo studio e precipitandosi giù per le scale di corsa tornò alla libreria.
Il lampo giallo era ancora lì, e lo aspettava battendo il piede d’impazienza. Il ragazzo non poteva crederci che aspettasse proprio lui, che se n’era rimasto imperterrito all’ingresso della libreria, rifrangendosi su una vetrina tirata a lucido, sguazzandoci nel trogolo ritrovato: aveva atteso lui. Incredibile! ne ricordava pochissime di occasioni analoghe, sicuramente quando sua madre era in attesa di lui. Ma lo aveva aspettato veramente? gli sovvenne un dubbio e lo azzerò, in un batter d’occhio. Per paura evitò l’almanacco delle altre occasioni per dirigersi verso quel lampo che, rivedendolo, ora scalpitava in un giallo furioso, tendente al bruno. Pensò al Giudice e gli rimbombava: entrarci dentro. Due sole parole eppure affilate, odiose; erano sufficienti due passi, due passi ancora per due parole, ma la fatica gravava, schiacciandolo, e la paura lo tratteneva ad un palo o albero, chissà!, in ogni caso lo tratteneva. Paura e coraggio, che odioso binomio acquisito dalla nascita: non c’era una via di mezzo? era quella che cercava. La trovò nel modo più semplice e diretto, nessun arzigogolo: si mosse di un solo passo. Un passo ed una parola. Fu sufficiente; a volte basta mettere sul piatto un’intenzione seria. Il lampo se ne accorse e anche lui fece a sua volta un passo e lo prese sotto una calda luce protettiva, lo avviluppò, abbracciò, strinse, ma non pensate che gli facesse male, perché lui rideva, sentendo voglie e formicolii strani, come d’una bibita frizzante giù per la gola; gorgogliava, anche. Tutto finì all’improvviso, nel lampo di un baleno, lasciandogli un vorticoso giramento di testa, sorta di sbandamento incontrollabile, e oscillò, paurosamente, sotto l’effetto tellurico di una forza incontenibile e oscillando cadde su qualcosa o, peggio, qualcuno, che in quel mentre usciva dalla libreria, pieno di sé.
Si fa presto a dire qualcuno! Era una ragazza, e anche bella, con discrezione; insomma, dovevi soffermarti per carpirne i segreti di bellezza, certo è che non le avresti fischiato dietro al solo passaggio. Lei sbandò insieme ai capelli, da qualche parte si avvertirono ciondolii metallici (orecchini o bracciali, non so), ed un grosso libro le cadde di mano, aprendosi sull’asfalto. No, no, si mise a piagnucolare lei vedendo lo scompaginamento affettivo sotto i suoi occhi; ma guarda, continuò, guarda cosa hai fatto testa di c… e di m…, concluse la ragazza con pudicizia, e vi aggiunse dei pugnetti bene assestati sull’avambraccio sinistro di lui. Il giovane ex detenuto era frastornato: che scherzo era quello? Donne e libri in un sol colpo? era quello l’appuntamento che aveva rischiato di saltare? Pensò al lampo e lo maledì. Maledì anche il Giudice, ma in un punto più profondo del suo oceano inquieto, e non se ne accorse. Farfugliò delle scuse incomprensibili, tacendo ovviamente del lampo giallo e della bibita frizzante, accovacciandosi a raccogliere il libro che, così conciato com’era, pareva una bocca storta con una brutta dentatura, e un ghigno da malfattore. Come si fanno ad amarli, disse tra sé. E intanto, giacché c’era, guardava in su le gambe niente male (di lei) che sparivano poco sopra il ginocchio. Non osò di più. Lascialo stare, gridò lei impaurita, non ti azzardare a toccarlo o sarà peggio per te, e dicendolo mostrò un tacco appuntito di tutto rispetto.
La vanità supera sempre la propria bellezza! gli venne da dire – ma non lo fece – al giovane ex detenuto e per nulla poeta o lettore, e pensò ad un qualche attacco di nonosoche. Di pazzia bella e buona, aggiunse tra sé, altroché. Bloccato a mezz’aria con le ginocchia piegate, le mani ad arpione e lo sguardo invariabilmente verso il su del cielo, oltre le gambe ferme al ginocchio dove troneggiava il bel viso di lei, sconcertato e rabbioso dell’infausta acquirente, s’interrogava sul da farsi. Un facere incommodo, pensò ancora. Ma cosa gli capitava di pensare certe frasi senza senso in lingue sconosciute, eleganti e supponenti, oh sì tanto supponenti, rincarò, ma del significato di quest’ultima parola (supponenti) non ne sapeva nulla. Iniziava ad innervosirsi di quanto accadeva e la testa gli rumoreggiava manco fosse un flipper, e per sgranchirne gli ingranaggi scosse il capo riccioluto muovendo un ammasso intricato di capelli neri, con boccoli anarchici che gli calavano sulla fronte, e dietro la nuca. La ragazza colse l’attimo della fatale incertezza, e lo colse al volo impietosendosi, entusiasta dei soli suoi capelli tra i quali frugò le sue idee o pensieri. A lui parve più che altro una bella grattata di testa e non gli dispiacque, e reagì con un tremito, di quelli incontrollabili. Poi, deciso, si alzò. Erano di già innamorati, reciprocamente. Che vuol dire facere incommodo, esordì lui; è semplice, fece lei col sorriso di chi non se la crede: si dice quando sei impegnato in un’azione scomoda, poco agevole. Ah! sorvolò; e supponente? e anche qui lei non ebbe incagli: uno che se la crede, insomma che se la tira. Tu non mi sembri supponente, continuò la ragazza, peccato il libro, e lo raccolse trattandolo da ferito semi-grave. Il giovane restava imbambolato, le spiegazioni erano soddisfacenti ma non si spiegava il resto, e si grattò la testa perché il problema era sicuramente lì dentro. Se vuoi te ne compro uno nuovo, un libro nuovo voglio dire, le disse il giovane; la ragazza guardava il suo libro dispiaciuta e lo accarezzava: non fa niente, gli disse, non si è rovinato molto e poi era l’ultima copia; beh!, sbottò lui, vuol dire che te ne compro uno diverso. Lei si fece arcigna: non penserai che un libro vale l’altro? Lui che sinceramente non sapeva di cosa stesse parlando, a peso morto in un mare di ingenuità, se ne uscì con un: ah no?
Caro lettore stranito, se tu fossi passato da quelle parti dopo qualche ora, all’incrocio tra le due vie principali, dove risalta l’insegna del bar-caffetteria, e avessi sbirciato tra i vetri che danno sulla strada, li avresti visti uno di fronte all’altro, con un gran numero di bicchieri vuoti, e avresti notato che lei parlava parlava e parlava, e lui l’ascoltava, interessato e paziente. Tu non puoi sapere l’argomento della conversazione, puoi magari immaginarlo perché ti ho condotto per mano ad occuparti di certe vite altrui, puoi giungere a delle conclusioni logiche, ma se qualcuno passando di lì come te, e vedendoti incollato al vetro che li guardavi attento e ti avesse chiesto: scusa lettore, mi sai dire cos’hanno da dirsi così tanto quei due? tu avresti esordito dicendo: penso che … . Altre certezze non le avresti sfoderate visto che dal vetro potevi vedere e non ascoltare. Ecco! Però se tu non ti fossi limitato a guardare la strana coppia, e preso da un’insolita morbosità, ti fossi spinto con lo sguardo oltre, verso il tavolino sulla destra, sotto il grande affresco per nulla disdicevole con tante donne e uomini stilizzati ad una tavola imbandita, ti saresti accorto di me che, fingendo di farmi un’intera Settimana enigmistica, li ascoltavo più morboso di te, senza perdermi una sola parola. E tutto questo perché, più avveduto, non mi sono accontentato di guardare dal vetro ma ho preso coraggio, sono entrato e mi sono seduto proprio al loro fianco. Ho avuto più coraggio e ora posso riferirti segno per segno ciò che si dicevano, all’insaputa di me.
C’è poco da dire: il coraggio fa fare passi da gigante. A tutti!
Parlavano – anzi, meglio, parlava – di libri: dei sontuosi, inarrivabili, maledetti, roboanti, libri. Di ogni genere. Partì con i racconti e finì con la poesia attraversando una cordigliera intera di generazioni e secoli e generi: e non fu mai dotta. Si limitava a offrire il succo polposo di personali sensazioni e palpitazioni, ricreando il mondo in cui viveva quando leggeva: un mondo inaccessibile, e a macchie di colore. Lui aveva notato che i suoi occhi spesso parevano guardare altrove, eppure pensò bene di evitare accenti troppo personalistici, inutili informazioni: lui, l’ascoltava. Spesso non capiva nulla di quanto lei dicesse, e si sforzava; era uno sforzo tremendo il suo, e evidenti chiazze di sudore gli aureolavano le ascelle, e per darsi un tono ordinava una birra dietro un’altra, e anche lei lo seguiva in questo, per non essere da meno. Gli venne il dubbio che tutto questo fosse molto o troppo teorico, nulla di afferrabile nello spazio infinito dei tanto decantati libri. A studiarla bene, in verità, lei era un po’ come il Giudice Tal dei Tali. Certo nessun paragone possibile in fatto di bellezza, però era un incensamento continuo dei libri, di questi famosi libri, di questi invocati evocati enfatizzati libri, ma alla fine nessun titolo o lista o nome, a lui che voleva una via, o un vicolo soltanto, con numero civico; insomma, un posto dove soffermarsi e guardare in giro o in alto gli abbaini poco illuminati. Gli sarebbero piaciute delle storie di persone possibili, che avrebbe potuto incontrare in ogni momento, ad esempio mentre spingeva orrendi carrelli dalle ruote storte nel supermercato a due passi da casa sua; che poi, caso mai, non le avrebbe incontrate quelle persone, ma il solo fatto che ciò fosse stato possibile gli avrebbe reso un senso della realtà, una realtà vera, vivibile. Invece, ogni cosa restava sospettosamente vaga. Affusolata, ondeggiante. Gli stavano proponendo, in fin dei conti, un bel cartoccio di zucchero filato, perché per lui niente era più evanescente e inconsistente dello zucchero filato, a parte quel buon sapore di bruciato e dolciastro che non era per niente male. Ecco! aveva trovato la soluzione, gli stavano propinando – il Giudice come la ragazza – una cassa intera di zucchero filato, volevano che restasse bambino, un bambino estasiato che immagina e sogna una vita di balocchi, salvo farsi venire le occhiaie a comprendere un’umanità di tutt’altra pasta. Lui era stato in carcere, due giorni soltanto, certo, eppure sufficienti a uscire dal mondo incantato dei sogni: era diventato più grande. Come si dice?, si disse: era adulto. Sì, era diventato adulto. Arrivò a pensare, intanto che l’altra spaziava nell’immenso mondo dei libri, che sarebbe stato bello rendere obbligatori alcuni giorni da carcerati invece del servizio militare, ognuno ne avrebbe tratto beneficio per il futuro. E perciò, venendo al dunque, non gli servivano leccornie e simili, neppure lo zucchero filato. Gli interessavano i libri carnosi e succosi pieni di uomini e donne eccitati che si incontravano discutevano si odiavano e si amavano, che facevano un gran sesso, tanto e sempre, e mentre lo facevano guardavano fuori dalla finestra un tramonto o la luna o una stella più ardente delle altre, o una finestra illuminata pensando ad altro, immaginando altre storie, altri letti, altri incontri. Li voleva così i libri, oppure ne avrebbe fatto francamente a meno. Voleva trovarci gente che s’incrociava per caso o per volontà, che s’infiammava alla prima occasione o restava estasiata di fronte a sciocchezze che parevano verità indistruttibili, ci avrebbe voluto tante tantissime cose nei libri, e tutte possibili e reali per sognare che sarebbero potute capitare anche a lui. E se in punto di morte si fosse accorto di una propria vita banale ogni oltre immaginazione, beh! pazienza! sarebbe morto con la speranza di quelle vite nella prossima vita. Lui ci credeva.
All’improvviso lei tacque. Aveva finito. Ordinarono altre due birre lasciandosi andare sulle sedie a godersi i rumori di fondo; di fianco a loro c’era un signore di mezza età impegnato in un cruciverba, assorto completamente, in lontananza un miscuglio di razze ed età, al di là dei vetri un paio di persone li osservavano e dietro di loro la folla scorreva calma: non era ora di punta.
Cos’hai comprato? gli chiese lui a bruciapelo; in libreria? domandò lei; sì, sì, insisté lui, quel libro che ti ho rovinato, cos’è. La ragazza parve pensarci su: sono più di ottocento pagine, scritte fitte, me ne hanno parlato bene, però di più non so. Ottocento pagine? fece lui a occhi sbarrati. Come si fa a scrivere così tanto, e a leggerli soprattutto; beh! replicò lei, la vita è molto più lunga di ottocento pagine eppure non ci basta mai. Convinta di averlo spiazzato. Se sei fortunato è così, altrimenti …, rispose lui, e fu la replica definitiva. La più saggia. Ma tu leggi?, chiese la ragazza con qualche dubbio al riguardo, ora; lui le spiegò candidamente che in effetti non leggeva e che era in attesa di una lista di libri da una persona molto su – e le dovette precisare che intendeva una persona altolocata, uno potente insomma, lasciando di stucco la ragazza che non avrebbe immaginato certe sue entrature a vederlo così com’era, con quei capelli folti e arruffati e ricci e neri, e addirittura senza avere mai letto un libro (perché a questa conclusione era inappellabilmente giunta); però la lista non arrivava e lui non aveva mai iniziato a leggere. Fammi leggere il tuo, le disse con tono sfacciato, direi impertinente. La ragazza era più impertinente di lui: tieni, gli disse, prendilo, leggilo e riportamelo. E presa da uno scatto di nervi lasciò cadere sul tavolo il bel tomo da ottocento pagine e se ne andò in tutta fretta. Il ragazzo – che l’avrebbe volentieri presa a schiaffi – non fece nemmeno in tempo a chiederle dove l’avrebbe ritrovata per restituirle il libro; alzò le spalle indifferente e ordinò un’altra birra. L’ultima.
Quella sera fu un disastro.
Il giovane ardeva dalla voglia di leggere il libro. La copertina blu gli piaceva e anche la figura di donna stampata sopra stimolava sensi nascosti, per lui indecifrabili, e se lo rigirava tra le mani, e ne scorreva le tantissime pagine con il viso pronto a ricevere il loro fresco alito, quello decantato, raccontato, mitizzato. Si convinceva di più e ancora di più che aveva proprio voglia di leggere un libro: quel libro. Ce la farò?, si chiedeva un attimo dopo, vedendolo sul comodino alto un bel po’ e compatto. Fece dei calcoli e usciva fuori che se avesse letto 5 pagine al giorno l’avrebbe finito dopo 168 giorni (le pagine erano 843 per l’esattezza), cioè cinque mesi circa. Cinquemesi? gridò. Qualcuno bussò forte alla parete: silenzio! è ora di dormire, disse una voce attutita. Cinquemesi?, ripeté a voce sommessa. E se muoio prima?, si disse. Fece una smorfia con le labbra, in fondo era un’ipotesi assai remota, i giovani non muoiono tanto facilmente. Si convinse che non sarebbe morto e che ce l’avrebbe fatta a conoscere il finale di quella storia che dal titolo pareva proprio un giallo con un morto e un colpevole. Pensò al Palazzo di giustizia, e al Giudice, e una gran soddisfazione gli montò dentro e avvertì un caldo così piacevole che ci scappò una risata. Era di nuovo la bibita frizzante. Ricomposta la mente, e i sensi, decise che le pagine da leggere dovevano essere non meno di 10. In fondo non sono poi tante – si fece coraggio – se leggo una pagina al minuto mi ci vogliono dieci minuti e dieci minuti al giorno sono niente, uno starnuto appena. Gli occhi del ragazzo brillavano, aveva capito finalmente perché la gente leggeva così tanti libri: perché è un gioco da ragazzi. Leggendoli con dieci minuti al giorno puoi divorare intere librerie. Si lavò i denti, diede una rassettata ai capelli, e felice fino all’orlo si infilò nel letto. Tutti affermavano di leggere prima di dormire, quindi evidentemente era quella la situazione migliore, la più adatta, pensò.
Faticò a trovare la posizione perché la luce non arrivava a sufficienza sul libro, il materasso pendeva da un lato e le coperte gli davano fastidio, si mise di lato – prima il destro poi il sinistro – supino, prono (ma capì subito che quest’ultima posizione gli avrebbe procurato una cervicale da paura), e dopo vari rivoltamenti e aggrovigliamenti di lenzuola, con un inizio di nevrosi immediatamente soffocata, pervenne ad un buon compromesso. Era mezzo di lato e mezzo supino. Riprese a respirare tranquillo.
Lesse la prima pagina di corsa perché aveva già perso del tempo prezioso – sebbene, si disse confortante, i dieci minuti dovevano calcolarsi di sicuro dal momento in cui iniziava a leggere, non certo prima – e di corsa anche la seconda, e controllando l’orologio capì che era in orario, forse una manciata di secondi in anticipo; sarà bene accelerare, disse, e forzò la lettura della terza e della quarta pagina. Alla quinta avvertì una prima confusione sui nomi, e dei luoghi anche. Il tutto si svolgeva in un Paese a lui ignoto, e i nomi delle vie e delle piazze lo incagliavano, e soprattutto lo confondevano e lui li saltava, apparendogli inutili: ma la confusione restava. Si parlava anche di poesia e di giovani poeti: e che ne poteva mai sapere! Meglio così, pensò, imparo due cose insieme. Era in anticipo sul cronometro e tornò indietro (farò presto, pensò). Invece si incartò sulla terza pagina perché rileggendola gli sembrava necessario ritornare alla seconda e, da lì, alla prima, ed erano trascorsi cinque minuti, gliene restavano altri cinque ed era tornato al punto di partenza. Imbizzarrito, lesse come un forsennato tutte le pagine fino alla decima, e si fermò. Non aveva capito niente. Chi e cosa si faceva in quello strambo Paese sconosciuto si accavallavano, e più cercava dei personali punti di riferimento più ogni cosa lo lasciava indifferente, perché in fondo a lui che gliene fregava delle vite altrui. Forse non gli importava nulla dei libri se non erano altro che racconti delle vite di certi sconosciuti. Un accesso d’ira lo conquistò tanto da gettare via il libro che cadde con un tonfo; poi il ragazzo scoppiò a piangere. Piangeva davvero, nascondendosi sotto il cuscino, nascondendosi alla sua vista, e piangeva balbettando la sua ignoranza, e la stupidità pure, e di fronte a sé vedeva una muraglia prima d’acqua e poi di cemento e poi di fuoco, una muraglia impossibile da superare, mentre lui sarebbe rimasto lì, nell’angolo, a invecchiare. E, per di più, senza aver letto un solo libro, uno qualunque. E quando smise di piangere si addormentò profondamente.
Il giorno dopo, puntuale, era davanti al Giudice Tal dei Tali.
Il Giudice in questione godeva di una accentuata, seppur nascosta, sensibilità, che lo avvertiva degli umori intorno a lui. Che c’è?, chiese al ragazzo, qualcosa non va? Nulla, va tutto bene, rispose; non ti credo, gli fece il Giudice, sembri sul punto di scattare come una molla, qualcosa è successo. Attese. La lista?, cambiò discorso il ragazzo; non c’è, disse irritato il Giudice guardando certe carte che aveva sul tavolo, torna domani. E se non tornassi?; beh, sarebbe peggio per te, lo sai. Il giovane si mosse nervoso, era la prima volta che manifestava sentimenti ostili, sembrava giunto al picco della pazienza, e non c’era da dargli torto dopo tanto tempo per avere una semplice lista di libri. Una semplice lista di appena qualche libro leggibile. In fondo lui non aveva chiesto niente, era stato l’altro a solleticarlo. Nel frattempo, gli disse il ragazzo, non potrebbe dirmi come si fa a leggere un libro? Il Giudice Tal dei Tali si insospettì. Perché hai comprato un libro? gli chiese. Ma no che dice! fece secco lui, senza la sua lista che libri vuole che io compri, lo chiedevo così, per anticipare i tempi e quando avrò la lista potrò iniziare subito. Il Giudice finse di crederci. Per leggere bene un libro, gli disse severo, non devi far altro che pensare alla tua vita. E tacque come suo solito. Alla mia vita? disse il ragazzo alzandosi, vistosamente adirato, mi prende in giro? ma non parlano i libri della vita di altre persone? Il Giudice conservò la calma e l’equilibrio propri facendogli intendere con uno sguardo più comprensibile delle parole che aveva espresso la sua opinione e null’altro v’era da dire al riguardo. Ora vattene, gli intimò. Il ragazzo se ne andò furioso. Sulle scale incrociò i suoi abituali estimatori ai quali non diede un minimo di confidenza e uscendo sentiva che bisbigliavano: c’era da immaginarselo, ne avrà fatta una delle sue quel vecchio gufo. Eppure lui non ce l’aveva con il Giudice. Avrebbe dovuto avercela, perché era stato più provocatorio del solito, più arrogante, e di nuovo aveva rinviato la lista lasciandolo sulla corda in un’attesa infinita e straziante, come un feto che non nasce mai. Eppure sapeva che a voler menar le mani si sarebbe dato volentieri un bel pugno in un occhio. Fuori il tempo era incerto, nuvole veloci andavano e venivano e non riuscivi a goderti un po’ di sole o un cielo scuro per più di un minuto, che quello cambiava. I suoi sentimenti cambiavano, con la stessa velocità. Si appoggiò ad un lampione a guardare uno per uno chi gli passava davanti. Gli occhi, il taglio dei capelli, la forma della mascella, l’andatura, e provò a immaginare le loro vite, le case, gli arredi, le famiglie, arrivando alle parentele fino al terzo grado. Ogni tanto le paragonava alla sua, e, quindi, alla sua famiglia, e se possibile verificava le analogie per lui di maggiore interesse. Pensò al carcere, che in fondo è un’esperienza non proprio frequente in certi ambienti. Si immaginò una cosa simile per il figlio presunto di una signora davanti ai suoi occhi, vestita con una bella gonna ed una borsa capiente. La vede disperata davanti ad uno specchio dopo la chiamata dei poliziotti che il figlio era in stato d’arresto; anzi la immagina seduta in bagno, pensosa, e poi la vede uscire di corsa, andare dalla vicina per chiederle un favore, sa! avevo promesso a mio marito la parmigiana e mi dispiacerebbe se …, e la vicina la rassicura. Ora la signora a passo veloce entra in un portone elegante con i numeri al posto dei nomi, si è fatta riconoscere accolta da un gridolino di piacere. L’attende sul primo pianerottolo una signora molto anziana dai capelli argentati ed un bastone bello grosso. Saluti, convenevoli, occhiate prolungate per scrutare ciò che non viene detto, per assaporare sicuramente dei ricordi troppo lunghi da sbriciolare lì in quel momento sul pianerottolo, in così troppo poco tempo. C’è qualcosa che agita, s’intuisce. Le due donne sono dentro, è percepibile una conoscenza di molti anni, forse l’anziana era stata una insegnante o chissà, l’importante è che resta un affetto sicuro, e a lei, a quella più giovane, ora interessa il nome di un avvocato bravo, non troppo caro, però, hanno di quegli onorari, mio figlio ha avuto un problema, l’hanno arrestato, non credo sia una cosa grave, lo conosco. La donna evita le lacrime, resta composta, ma addolorata sì, si vede e la donna anziana non si perde in inutili domande, chiama subito, ha conoscenze ottime, e discrete, può andare lì anche adesso, ha giusto un’ora libera. Che fortuna! qualcosa gira per il verso giusto. La madre in ambascia ha una gratitudine seria, visibile, assicura visite meno frettolose e sgattaiola con qualche imbarazzo di riserva, e va dall’avvocato, gentile, rassicurante. Sa, oggi si arresta per niente, vedrà che è stato un equivoco presto sarà libero. La signora torna a casa, raccoglie la spesa dalla vicina, prepara la parmigiana, ragguaglia il marito, lo calma, espande discorsi ragionevoli, stempera reazioni impulsive. Poi, lo accarezza sulla testa mentre lui finisce la parmigiana, sazio, e si distrae con la televisione, e lei va a struccarsi. Dice. Finalmente può sedersi di nuovo nel bagno a piangere, disinvolta, libera. Soddisfatta. Il giorno dopo l’avvocato va al parlatorio, le cose si schiariscono verso il meglio, si aggiustano, dovrà stare un altro giorno ancora e quasi sicuramente sarà libero. Il ragazzo è raggiante torna in cella e trova uno nuovo, della sua età, che ha voglia di parlare, di comunicare la sua esperienza, si ritrovano, l’altro non immaginava una tale accoglienza e gli racconta subito cosa è successo, una lite con un carabiniere, i soliti stronzi. Provocano apposta, dice il nuovo. L’altro conferma. Si guardano per conoscersi, ripromettono di rivedersi fuori, sopraggiunge una nebbia prima a banchi poi sempre più fitta, e infine le immagini si interrompono improvvisamente e così l’invenzione, e il giovane torna a essere in mezzo alla strada appoggiato al lampione: ma quello sono io? pensa il ragazzo; come ci sono finito nella storia del figlio della signora. La confusione regna sovrana quando le vicende si intrecciano e si incontrano secondo ordini naturali che a noi sembrano tanto complicati, anzi assurdi, biechi, sadici. Finzione, realtà, vita inventata e vita reale, un guazzabuglio infinito. Il giovane iniziò a capirci qualcosa, o perlomeno così gli parve, azzardò delle ipotesi mentali e occorre dire che dei lumicini si accesero. Questo fatto di ritrovarsi in carne e ossa e con la sua notte di nero carcere dentro una storia inventata (ma era poi realmente inventata?) aveva smosso la sabbia, e rimestato lì dentro dove qualcosa si trova sempre. Non attese oltre, e corse a casa.
A casa faceva freddo, un freddo fuori stagione e accese la stufa, e sopra la stufa c’era un pentolino con della brodaglia e lì di fianco un biglietto: scusami non ho avuto tempo per fare di meglio. Alzò le spalle indifferente perché era una scusa che si ripeteva, e lui non aveva voglia di occuparsene adesso che si trattava di iniziare a leggere sul serio; guardò l’orologio e in effetti non era certo l’ora per andare a letto, troppo presto. Decise di abbandonare regole di ogni tipo e pensò che sarebbe stato bello starsene un pomeriggio intero e anche la sera a casa, a leggere. Fuori era uscito di nuovo il sole e non era una ragione sufficiente per abbandonare l’idea fiorita in testa. Per una volta, pensò, avrebbe evitato repentini disorientamenti o impulsi troppo impulsivi. La brodaglia riscaldata gli sembrò eccellente e la finì in pochi minuti: di lì a poco qualcosa o, forse, qualcuno, l’attendeva.
Infatti, il libro era ancora lì dove s’era incagliato, sotto una libreria piena di ninnoli e altri soprammobili, inguardabili; il giovane lo estrasse con cura, di danni ne aveva già procurati e si trattava di recuperare l’affetto perduto: solo provvisoriamente, si disse; alcune pagine erano di sbieco, altre accartocciate e gli venne spontaneo di accarezzarle prima di riprendere una necessaria confidenza. Spostò uno dei soprammobili, centrale, e ci sistemò il libro e decise che non era niente male, proprio per niente, e che da quel momento avrebbe sostituito nel tempo ciascuno di quegli oggetti con un libro e alla fine avrebbe avuto una libreria piena di libri, da ammirare, e il Giudice ne sarebbe stato contento. È certo che lo avrebbe invitato a casa almeno per un caffè con tutto quello che aveva fatto per lui, chissà se avrebbe accettato, pensò, in fondo era sempre un ex detenuto. Passò oltre nel pensiero che si stava complicando e decise che era sufficiente che ne fosse soddisfatto lui, prima che qualcun altro. Ricordò che il libro non era suo e c’era da ingegnarsi per ritrovare la ragazza, e anche questo non gli sembrò un gran problema, gli sarebbe venuto in mente qualcosa di buono. Ora basta! disse ad alta voce. Il momento solenne era arrivato e indugiare ancora valeva a ritardare ciò che si sentiva sulla pelle attraverso sconosciuti pruriti. Si distese sul letto e iniziò a leggere.
Ripartì dalla prima pagina. Lasciando da parte ogni conteggio dei minuti, si accanì sulle righe iniziali con la convinzione di chi può farcela; c’avrebbe messo il tempo che gli serviva, si disse gongolante, tutto il tempo della sua vita, se necessario. E provava a raffigurarsi nella mente il protagonista e il luogo, per dare un senso reale a quella attività la cui piena utilità ancora gli sfuggiva. Si era accorto di certe incursioni di scene e persone a lui famigliari, addirittura momenti dell’infanzia che chissà da dove erano sbucati, ignorandole per tirare dritto. Non si era accorto, invece, di un velo che iniziava a pararsi davanti ai suoi occhi, un velo sempre più spesso che lo catturò trascinandolo con sé in un altro mondo mentre lui pensava di essere ancora dentro il libro. Povera farfalla prigioniera!
Fece allora uno strano sogno. Era al centro di un gran salone. Una donna alta e ben messa sedeva su un trono ma non era una regina né un’imperatrice; era coperta di drappi rossi e azzurri, una capigliatura enorme che puntava dritta al cielo e teli azzurri le riparavano la nuca e l’intera testa. Pareva in atteggiamento di attesa con le mani in grembo e lo sguardo dritto sebbene nessun altro fosse presente nell’ampio salone, tranne una gallina un po’ distante pronta a fare l’uovo con certi gorgoglii di accompagnamento, o borbottii che fossero. Lo fanno sempre controvoglia l’uovo e non mancano di rimarcarlo! Fatto sta che nel silenzio più silenzio, con l’eccezione che s’è detta, apparve, anticipata da un rumore felpato e discreto, una fila di valletti, che, in numero di cinque per lato, reggevano un enorme libro con tanto di grossa rilegatura e segnalibro penzoloni: e non c’era dubbio che fosse di notevole peso e spessore. I valletti si avvicinarono alla donna imperiosa, fermandosi in attesa; i suoi occhi traslucidi brillarono impreziositi, avendoci dentro distese di acqua di terra di arbusti e piante e fiori, mentre le altre parti del viso non presentavano segni di cambiamento. Poi, tolse gli anelli lasciandoli cadere, sfilò la collana, sciolse i capelli appuntati da un bel numero di aggeggi; quindi, allungò le mani e prese in carico il libro, senza fatica: e lo aprì, a caso. Il giovane avvertì la forza di un tornado sollevarlo nonostante le sue resistenze e di forza finì dentro quell’immenso libro, ivi scomparendo. Si svegliò di scatto per ricadere sul letto e fissare il soffitto che non aveva nulla da dirgli. Era ancora pomeriggio, sebbene inoltrato, un’ora buona per riprendere la lettura, pensò.
Lesse fino all’alba per addormentarsi di nuovo e poi leggere ancora, e avanti così per numerosi giorni e settimane, intervallato da parchi pranzi, e magre cene. A volte gli sembrava di essere vestito delle pagine di quel libro di 843 pagine tanto c’era dentro, e la difficoltà di ricordare i nomi e i luoghi lo elettrizzava, e se talvolta tornava indietro perché un passaggio era più oscuro del solito, altre volte, con maggior leggerezza, si lasciava trascinare dalle parole e dai fatti ridendo, come chi, sapendo prossimo l’annegamento, vuole distrarre la vita con grasse risate a preludio di un prolungamento che non ci sarà. S’intorcigliava nelle sabbie mobili del racconto come nella sua stessa vita e quando, esausto, decideva per il sonno, non c’era al mondo persona più felice di lui. Come ho fatto fino ad oggi senza? disse chiudendolo all’ultima pagina. E lo abbracciò e baciò ripromettendosi: mai più!
Da quel giorno in poi le letture forsennate si alternavano alle corse in libreria a rifornirsi. E di cosa? Di libri comprati per lo più alla rinfusa. All’inizio, senza capo né coda; si faceva incantare da un colore di copertina, dal tipo di carta, dalle prime parole o dalle ultime; più in là, rosso in faccia, chiedeva consiglio ai commessi, con una gestualità accompagnata da parole spesso imbastite in malo modo e per nulla comprensibili, e loro sorridevano e gli dicevano ma forse intendi questo?, oppure: ah! forse ho capito!, fatto sta che non se ne usciva mai a mani vuote, e man mano che tutti quei libri variopinti prendevano posto sulle scaffalature i soprammobili finivano nell’immondezzaio, come una reazione a catena. La lettura imperiosa di quei libri non distoglieva, però, il giovine dall’appuntamento quotidiano col Giudice Tal dei Tali, cui non aveva inteso rinunciare, pur ripromettendosi che nulla di quanto accadeva doveva trapelare dalla sua bocca troppo larga. E così fece. Ogni mattina gli chiedeva della lista e puntuale la risposta era negativa; mascherava bene la soddisfazione di cui era rimpinzato, e si sforzava di conservare il suo precedente linguaggio mentre parole più sofisticate e nuove ed elaborate erano spesso lì lì per sfuggirgli. Per fortuna che gli incontri erano assai brevi, e il Giudice sempre più laconico, e appena fuori della porta gli si stampava in viso un sorriso così radioso da lacerare gli sguardi occasionali.
Una mattina, uscendo dal Palazzo di Giustizia, sbirciando le novità in vetrina della libreria lì da presso, gli parve di vedere, come un riflesso di specchi dispettosi, la ragazza del prestito. Oh dio! il libro! gli sovvenne e s’infilò di corsa. Era proprio lei! Saluti, baci di prammatica, un qualche iniziale disagio; il ragazzo per mostrare disinvoltura si sistemò col gomito al primo punto d’appoggio lì a portata di mano; era una pila di libri freschi come uova di galline che rovesciò sotto il peso squilibrato creando rumore, panico e un viso rosso di fuoco. Andiamo a bere una birra, lo strattonò lei di maggiore esperienza. Ma è appena mezzogiorno, fece lui scandalizzato; vedo che non hai imparato niente dal mio libro! perché lo hai letto vero?, gli disse guardandolo storto; sì-sì, balbettò lui, ma che c’entra con la birra alle dodici; la ragazza sbuffò: la libertà prima di ogni altra cosa, declamò, e senza alcun preavviso lo afferrò per un braccio spingendolo in un portone grosso e di legno scuro appena socchiuso, e una volta lì dentro lo spinse contro il primo muro nella penombra che incontrò e lo baciò saporitamente. Nascose le mani nei suoi di capelli baciandolo dappertutto, anche sulle palpebre e agli angoli della bocca e sul viso, e sulle orecchie e dietro e sul collo, ed era come infuriata d’amore. Lui, dopo un primo sbigottimento, lasciò fare per godere di quella scia lasciva salivosa che gli stuzzicava certi sensi addormentati, e, cosa strana!, gli venivano in mente le copertine dei libri, e un groviglio di parole provenienti da mille direzioni e volte a un solo punto, così che il viso di lei e il viso dei libri si sovrapponevano rendendolo ancora più pieno di un godimento che non avrebbe mai saputo spiegare, neppure dopo anni, ai suoi numerosi figli che lo ascoltavano, incantati, leggere loro delle favole arabe e indiane piene di veli e di misteri. Lei interruppe il dilavamento con la subitaneità dell’inizio, centrandolo negli occhi raggianti: avevano quattro occhi! Ora possiamo prenderci una birra, gli disse, e senza prendersi per mano uscirono dall’androne. Tornarono nello stesso posto della prima volta e lui questa volta parlò e la mise al corrente dei progressi e delle meraviglie e nacquero terreni di confronto privi di un orizzonte. Poi la invitò ad andare da lui a riprendersi il libro, e poi a consumare insieme la magra cena, e poi a condividere il letto e i sogni: quella sera lei dormì per la prima volta nel letto di un ragazzo che le piaceva molto, con una massa di capelli neri, fruttuosi, e delle mani dallo splendido tocco, di cui solo ora aveva contezza. Lui, nello stordimento complessivo si lasciò guidare dagli eventi, così come aveva imparato dai libri, e fu, per la prima volta, felice.
Nel corso della notte si svegliarono più di una volta e negli intervalli, pieni di sudore, leggevano a turno ciò che capitava e ciò che quella nuova biblioteca, non ancora gustosamente rifornita, offriva. Ma c’era di che accontentarsi. Commentavano, s’accavallavano, ridevano, polemizzavano, tacitandosi a turno con dei poderosi e lunghi baci, alternando baci e silenzi come in una delle tante belle poesie di cui colsero il frutto proibito della conoscenza. Sviscerarono i loro autori preferiti, commovendosene alle lacrime, s’aggrovigliarono in parole proprie e altrui, svelarono intimi segreti e sogni, apparendo in una linea lontana, di confine tra cielo e terra, non già uno stolto futuro quanto un immancabile presente disteso, nudo, sotto il sole del desiderio. Che arda ciò che manca sì da non bruciare nulla!
Le cose si sistemarono alla meglio e tra i libri da leggere, i pensieri da curare e la ragazza da frequentare di tempo ne rimaneva poco, quel minimo indispensabile per onorare l’appuntamento giornaliero col Giudice, cui quel giovane virgulto teneva; d’altronde, grazie a lui, il meccanismo s’era voltato a suo favore. Ah se non ci fossero state quelle manette! sante e benedette!, si trovò a pensare, stupito, una notte, intanto che la guardava dormire e russare, a bocca aperta.
Certo è che poco e male riusciva a nascondere, tra le pieghe del viso e nell’intrico capelluto, quanto di bello gli capitava. E il Giudice non mancò di notarlo.
Tu mi nascondi qualcosa, ragazzo, gli disse a bruciapelo un giorno, qualcosa d’importante, aggiunse dopo una pausa. Il ragazzo replicò con una negazione per niente convincente, un po’ stiracchiata. Non penserai di farmela, giovinotto, insisté l’altro che quel giorno non intendeva mollare l’osso. Il giovane s’agitò sulla sedia, impacciato: è possibile rimandare questo discorso? gli fece, e la voce roca gli tremò. Il Giudice bofonchiò un grugnito, appoggiò la schiena alla poltrona e parve partire per un qualche posto: con la mente. Non c’era più lì e gli occhi guardavano altrove, e c’era ai lati della bocca un mezzo sorriso: permesso accordato – gli disse continuando a guardare ciò che solo lui vedeva – e ora vattene, e di corsa pure. Il ragazzo uscì – di corsa, appunto – ringraziando sinceramente. Il Giudice rimase lì in quella posizione per un bel pezzo, ma a noi non è dato sapere in alcun modo quanto gli stava accadendo.
Il giorno successivo il ragazzo uscì di casa per recarsi dal Giudice, determinato a raccontargli ogni cosa, perché secondo lui era giunto il momento, e per fare sul serio aveva predisposto – ci aveva lavorato tutta la notte – la lista completa dei libri comprati segnando i letti dai non-letti. Non aveva tralasciato nulla, neppure certi orrori letterari in cui s’era imbattuto: era pronto a disvelare tutta la sua verità. Bussò alla porta una due tre volte ma nessuno gli rispose; chiese informazioni alla prima segretaria a spasso senza ottenere alcunché: lei non l’aveva visto quel giorno; bussò ancora e con una quale audacia girò la maniglia e lentamente aprì la porta: il Giudice non c’era. Non ci credeva, a quello proprio no; un castello intero si frantumò ai suoi piedi trascinato da una corrente disumana di pensieri stizzosi e innervati in losche raffigurazioni di nessun ausilio. Girò i tacchi e se ne andò in preda al panico.
Tornò a casa perché lei era lì ad aspettarlo, e così fu: era sul letto e leggeva, e a mala pena si accorse del suo rientro e tanto meno dell’agitazione che l’apprendeva. Il ragazzo esperì mimiche di ogni tipo per attirare un’urgente attenzione che rimase lì, a mezz’aria come una bandiera funebre. Prese a sbattere piatti e casseruole e ogni oggetto in mezzo alla via, quand’eccola appoggiata allo stipite che lo guarda: qualcosa non va?. Fu la loro prima litigata. Niente di tragicomico, una banale scaramuccia: non lasciò tracce. Dopo poco più di mezzora erano abbracciati e ridevano, lasciando il senso compiuto dei gesti e delle parole ai critici o, forse, agli storici. A loro non interessava. Comunque in sintesi il ragazzo le raccontò del Giudice di cui lei ignorava l’esistenza e l’epilogo alquanto strano, preoccupante direi, aggiunse, corrugando la fronte bella. Lei gli spalmò il viso con tale delicatezza da farlo sorridere intanto che gli occhi di entrambi sprizzavano ogni genere di lampi, di incerta origine.
Nei giorni seguenti il ragazzo tornò a Palazzo ma del Giudice nulla si sapeva e nessuno lo aveva più visto, e la cosa che più lo rattristava era vedere come a nessuno sembrasse importare granché di quella improvvisa scomparsa: era data per cosa naturale. Ma come naturale, gridò un giorno in faccia a un impiegato che si meravigliava della sua preoccupazione, da quarant’anni ogni giorno è seduto dietro quella scrivania senza mai un ritardo e per voi è naturale che da un mese non se ne sappia più nulla?. L’impiegato faticava a seguirlo nel discorso, mise in mostra uno sguardo più che interrogativo, poi gli disse, col tono del fratello maggiore, e un bieco sorriso: è la vita!.
Ma come è la vita, rimuginava il ragazzo, prendendo a calci tutte le pietre che lo intralciavano nel viale del parco alberato, uno sparisce così e questa sarebbe la vita? E non era uno qualunque! E mentre si strizzava il cervello a trovare una risposta per lui soddisfacente, gli venne un’idea e corse a casa. Lei era sempre lì a fare briciole e sfogliare libri. Ho bisogno di stare da solo, diciamo per due settimane, non di più, poi ti spiego. Lei lo abbracciò, lasciando cadere altre briciole e il libro, raccolse le sue cose alla rinfusa e lo rassicurò. Ho bisogno di un piacere però, fece lui; dimmi, disse lei; vorrei in prestito i tuoi libri più belli, quelli più importanti, quelli indispensabili, quelli del tutto inutili, quelli pieni di fantasia e quelli pieni di sola realtà, a tua scelta insindacabile. Lei acconsentì, a patto che non li facesse cadere né vi apponesse orribili orecchie. L’accordo fu siglato con un bacio zuppo di saliva, quindi lei di gran carriera andò a casa e tornò indietro con due valigie pienissime (nell’occasione l’accompagnava un amico fuori dal comune) e lo lasciò in pace per il tempo richiesto. Lui si chiuse nella camera, appese fuori un cartello artigianale: NON DISTURBARE PER NESSUNISSIMO MOTIVO, ed un altro con le regole per passargli il cibo. Chiuse a chiave e si mise al lavoro. Le ore furono impiegate non soltanto a leggere quell’ammasso informe di libri, quanto a scovare, seguendo un suo filo del discorso, quanta analogia ci fosse – se non addirittura similitudine o identità nel peggiore dei casi – tra il vuoto e la vita: in fondo iniziano entrambi per la medesima lettera, si disse. Partì dalla lettera v. La prima parola che gli diede un’indicazione fu voci, e subito dopo verità, cui si aggiunse, a dispetto, viltà, e, sempre più accavallate, vanagloria, volontà, vilipendio (andò a cercare sul vocabolario il significato), vittoria, vista, virtù; si lasciò prendere dall’entusiasmo correndo freneticamente dietro alle parole, e lettera per lettera risalì l’alfabeto tutto e con esso i libri per saperne di più su quel connubio vita/vuoto, una contraddizione in termini, un paradosso. Ecco cosa gli capitava tra le mani: un paradosso! Ne aveva sentito parlare di questi paradossi ma che la vita lo fosse, beh! questa era proprio una novità. Continuò imperterrito il lavoro ripromesso e via via che leggeva riempiva quaderni di appunti e sfornava teorie su teorie, e si poneva domande con qualche risposta, poi ci ragionava su quando sentiva gli occhi chiudersi, e talvolta chiedeva consiglio ai sogni che non lesinavano scene d’ogni genere, sebbene complicassero il quadro per nulla facile. I giorni passavano e il termine dato era agli sgoccioli e appena si accorse del poco che gli restava si fermò un attimo, farfugliò qualcosa per accorgersi, alfine, con somma meraviglia, che per cercare il vuoto della vita nel frattempo l’aveva riempita di libri e pensieri così tanti e così fitti che avrebbe potuto campare di rendita. Qualcosa non gli tornava, il vuoto era diventato pieno e la vita era sempre lì, perché non gli sembrava proprio d’essere morto. Si pizzicò: sì, era vivo. Ma se adesso era piena avrebbe dovuto svuotarla di nuovo altrimenti non c’era altro da metterci e sarebbe morto, e lui non aveva alcuna intenzione di morire. Si va e si viene, pensò. Guardò orologio e calendario: il tempo s’era consumato. Ravviò i capelli, sistemò gli abiti e aprì rumorosamente la porta: lei era lì, puntuale. La prese per mano: vieni ti porto dal Giudice, oggi secondo me c’è. Sotto il sole di quel giorno si vedevano le occhiaie e i segni dell’incuria ma lui non se ne incaricò. Salirono raggianti le scale del Palazzo e con una sicurezza invidiabile la portò davanti alla porta, un bel respiro e fece per bussare ma venne anticipato: entra ragazzo. Non se lo fece dire due volte. Il Giudice Tal dei Tali era lì al solito posto come se non fosse mai sparito. Era questa la novità allora, gli disse indicandola; non solo, rispose lui. Si sedettero. Gli balenò al ragazzo di chiedere qualche spiegazione ma risolse il tutto con un’impercettibile alzata di spalle, in fondo che importanza avevano troppe spiegazioni, gli interessava di più l’andirivieni del vuoto e del pieno: gli interessava il paradosso. Ora il Giudice era lì: come sempre. Il ragazzo tirò fuori dalla tasca un foglio sgualcito all’inverosimile, brutto a vedersi, e glielo porse. Il Giudice lo prese con due dita appena, spaventato da quella bruttura, e sistemandosi gli occhiali lo lesse attentamente, poi si guardarono. Sei stato bravo, gli disse il Giudice, e sembrava che faticasse ad ammetterlo, questa lista di libri è veramente eccellente, un giorno mi spiegherai come ci sei arrivato … un giorno, non adesso. Il giovane era seriamente soddisfatto. Bene ora posso darti la mia lista, fece il Giudice; prelevò dalla tasca una minuscola chiave, aprì un cassetto dello scrittoio e prese una busta. Usò il prezioso tagliacarte per aprire la busta e ne estrasse un foglio di splendido biancore: glielo porse. Questa è la mia lista. Il ragazzo squadrò il foglio avanti e dietro: era completamente bianco. Il bianco di quel foglio gli riempì il campo visivo e per poco gli sembrò di essere coperto da neve o da ovatta morbida, e comunque che il mondo fosse all’improvviso interamente bianco. Passati i cinque minuti di disorientamento, piegò il foglio e lo ripose nella busta. I due giovani si alzarono: aspettami fuori, per favore, disse lui a lei. Rimasti soli il giovane cercò di ringraziarlo ma il Giudice gli fece intendere a chiare lettere che l’aveva già fatto, e il ragazzo questa volta non capiva, e storse la bocca. Il Giudice si alzò parandoglisi di fronte, gli appoggiò una mano sulla spalla con un fare amichevole, mai visto prima: grazie alla tua lista ora saprò, finalmente, quali libri leggere. E lo stupore negli occhi di quel ragazzo è l’ultima cosa degna di restare impressa.
Michele Mocciola