Può capitare a un lettore di lasciarsi attirare dall’estivo volumetto Sbirre (Rizzoli 2018), un po’ per la necessità di letture leggere da alternare a Dalla scoperta alla conquista di Lyle McAlister e Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, un po’ per la notorietà degli autori coinvolti (Massimo Carlotto, Giancarlo De Cataldo, Maurizio De Giovanni) e un po’ per la formula dell’antologia di racconti che, seppur bistrattata tanto dagli editori quanto dal pubblico, esercita sempre un grande fascino. Qualcuno potrebbe invitare il lettore a guardarsi da una simile, smaccata operazione commerciale; ma vi è forse qualcosa, nel mercato editoriale di oggi, che non sia un’operazione commerciale? Ciò non impedisce comunque a diversi libri di essere un intrattenimento dignitoso, a volte perfino intelligente: basti pensare al feuilletonesco L’ombra del vento di Carlos Ruíz Zafón, alla serie “Oregon Files” di Clive Cussler (in particolare i romanzi scritti con Jack Du Brul), o ai migliori libri di Ken Follett, per citarne solo alcuni.
Ma c’è un’altra ragione, più profonda, che poi è la principale: il giallo è un genere dal fascino intramontabile, popolare e letterario al tempo stesso, capace di contaminazioni impensabili (che cosa sono La cognizione del dolore e il Pasticciaccio di Gadda se non gialli magistrali?) e, talvolta, di una notevole capacità di lettura dell’attualità. Di quest’ultima capacità l’editore di Sbirre non è ignaro: i risvolti di copertina promettono tre storie che “raccontano l’Italia al tempo dell’illegalità globalizzata, delle fake news, del condizionamento di massa”. Anche il lettore di cui sopra, seppur reduce da un appassionante capitolo di Dalla scoperta alla conquista dedicato ai mutamenti demografici occorsi nel XVIII secolo nel territorio di Nuova Granada, non può farsi sfuggire che Sbirre si presenta come un libro estivo, certo, ma pure ambizioso, anche se francamente la storia delle fake news è ormai stantia. Certo, il fatto che certuni siano sconvolti dalla notizia che le persone mentano dà da pensare: se vanno avanti così, presto scopriranno come si fanno i bambini e la loro vita non sarà più la stessa. Ma stiamo divagando.
Sbirre, dicevamo, si propone di raccontare l’Italia colta nel momento presente; ma soprattutto si propone di farlo rivisitando il tutto secondo un’ottica femminile; una scelta davvero mai sentita, oggigiorno, e che in fondo non incide sulla sostanza delle storie: queste poliziotte non agiscono né pensano in maniera diversa dai loro colleghi uomini. Non sappiamo se ciò si attenga alla realtà o meno: in entrambi i casi, non si capisce quindi la scelta di sottolineare il sesso delle protagoniste. Al di là delle ambizioni, tuttavia, il volume fallisce in ciò che dovrebbe fare per prima cosa: raccontare storie poliziesche avvincenti. La prima, “Senza sapere quando” di Carlotto, è di singolare debolezza e, pur non difettando di un certo ritmo, soffre di un finale affrettato e di personaggi che agiscono secondo logiche quantomeno eccentriche; va meglio “La triade oscura” di De Cataldo, un giallo semplice e semplicistico, ma dal finale parzialmente imprevedibile; la storia più intensa e meglio realizzata è però l’ultima, “Sara che aspetta” di De Giovanni, che all’interno di una struttura collaudata, ma sempre efficace, mette in scena personaggi vivi e convincenti.
Una volta terminata la lettura, riesce difficile capire in che cosa consista la pretesa di raccontare l’Italia del nostro tempo: certo, i personaggi si danno a un compiaciuto turpiloquio, ci sono collegamenti alla Rete, telefonetti, rapporti promiscui e famiglie disintegrate; ma l’impressione, più che di camminare fra centro e periferia delle nostre città, è di leggere un editoriale del Corriere uscito dalla penna di Massimo Gramellini o Aldo Cazzullo. Il sentore latente si palesa con prepotenza nel racconto di De Cataldo: già la presentazione nel risvolto di copertina, che parla di “magma ribollente della rete telematica, tra le pieghe più segrete del dark web, laddove alligna l’odio che consuma il Paese”, non fa niente per non suonare ridicola. Al di là del fatto che l’idea di dark web che emerge dal racconto è proprio quella che può avere un editorialista del Corriere (cioè YouTube e un forum in cui gli utenti scrivono “io odio i negri”), la presentazione del cattivo sembra uscita da un cinegiornale di propaganda: ben sei pagine sono usate per dirci che costui odia le donne, gli omosessuali, i politici, i magistrati, i sindacalisti, gli stranieri, gli zingari… e fin qui non siamo ancora nel campo delle barzellette. Il capolavoro è l’ultima categoria: “i professori”. Cioè, citiamo: “medici, fisici, astronomi, architetti, commercialisti, ingegneri […]. Li odiava perché una volta s’erano rubati, chissà come, un pezzo di carta e da allora se la rivendevano che solo io so, solo io posso dire, solo io posso fare [segue filippica di una pagina e mezzo che omettiamo]”.
Un ottimo spunto, questo sì, su un tema di attualità: il dibattito se la scienza sia o no democratica. Ne hanno parlato proprio qualche giorno fa su queste stesse pagine Michele Mocciola e Massimiliano Peroni, mostrando come la questione sia sovente affrontata in maniera illogica ed emotiva anche da parte di coloro che proprio per sé reclamano logica e raziocinio. La caricatura effettuata da De Cataldo, che nel corso del racconto si tinge anche di richiami al neonazismo e a Yukio Mishima (notoriamente la stessa cosa), è perfetto saggio di questo procedimento deleterio che, anziché risolvere il problema, preferisce squalificare l’interlocutore. Il risultato che si ottiene non è altro che un inasprimento del dibattito: chi condivide i presupposti della caricatura ammicca, chi ne è colpito reagisce radicalizzando la propria posizione. Un esempio scolastico chiarifica al meglio il concetto: se uno studente, erroneamente, contesta o rettifica l’interpretazione di un passo, di un’opera o di un fenomeno avanzata dal docente e quest’ultimo, anziché aiutarlo a esporre compiutamente la sua opinione per guidarlo a decostruirla, urlasse: “Ma che vuoi saperne, imbecille. Io traducevo Eschilo quando tu neanche eri un feto” (tono, lessico e argomenti tutt’altro che infrequenti negli interventi di alcuni celebri “professori”, soprattutto in rete), tutti, quorum De Cataldo, direbbero che si tratterebbe di un pessimo insegnante; mentre quasi nessuno sottolinea che è proprio questo l’atteggiamento più comune tra le persone che, in virtù della loro autorità e competenza, non dovrebbero, al contrario, cedere all’insulto e alla derisione.
Nell’affrontare tale questione, il racconto di De Cataldo non si mostra all’altezza delle analisi della realtà di cui il genere giallo. Dostoevskij direbbe: “Niente di più facile che condannare un malvagio, niente di più difficile che capirlo”. Ad ogni modo, ne “La triade oscura” non mancano sapide inesattezze: insomma, Giancarlo, ci propini un’omelia di pagine e pagine per dirci che dobbiamo fidarci di chi è competente e sa le cose e poi nella prima pagina metti in mano alla tua poliziotta una “Beretta calibro 9×21 d’ordinanza”: il 9×21 è un calibro diffuso quasi solo in Italia ed esclusivamente per uso civile, in quanto ai cittadini non è concesso detenere armi corte nel medesimo calibro di quelle delle forze dell’ordine, ossia il 9×19. Un errore non da poco per uno scrittore che fonda la credibilità dei propri gialli sul lavoro da magistrato (o forse dovremmo dire “professore”?).
Chiudiamo il volume, con la sempre crescente convinzione che dopo Scerbanenco il giallo italiano non abbia più niente da dire. D’un tratto, però, capiamo di aver sbagliato tutto. Discorsi infarciti di parolacce, disprezzo per gli interlocutori e persone che compiono scelte assurde: Sbirre è davvero un impeccabile ritratto del nostro tempo.
Ma c’è un’altra ragione, più profonda, che poi è la principale: il giallo è un genere dal fascino intramontabile, popolare e letterario al tempo stesso, capace di contaminazioni impensabili (che cosa sono La cognizione del dolore e il Pasticciaccio di Gadda se non gialli magistrali?) e, talvolta, di una notevole capacità di lettura dell’attualità. Di quest’ultima capacità l’editore di Sbirre non è ignaro: i risvolti di copertina promettono tre storie che “raccontano l’Italia al tempo dell’illegalità globalizzata, delle fake news, del condizionamento di massa”. Anche il lettore di cui sopra, seppur reduce da un appassionante capitolo di Dalla scoperta alla conquista dedicato ai mutamenti demografici occorsi nel XVIII secolo nel territorio di Nuova Granada, non può farsi sfuggire che Sbirre si presenta come un libro estivo, certo, ma pure ambizioso, anche se francamente la storia delle fake news è ormai stantia. Certo, il fatto che certuni siano sconvolti dalla notizia che le persone mentano dà da pensare: se vanno avanti così, presto scopriranno come si fanno i bambini e la loro vita non sarà più la stessa. Ma stiamo divagando.
Sbirre, dicevamo, si propone di raccontare l’Italia colta nel momento presente; ma soprattutto si propone di farlo rivisitando il tutto secondo un’ottica femminile; una scelta davvero mai sentita, oggigiorno, e che in fondo non incide sulla sostanza delle storie: queste poliziotte non agiscono né pensano in maniera diversa dai loro colleghi uomini. Non sappiamo se ciò si attenga alla realtà o meno: in entrambi i casi, non si capisce quindi la scelta di sottolineare il sesso delle protagoniste. Al di là delle ambizioni, tuttavia, il volume fallisce in ciò che dovrebbe fare per prima cosa: raccontare storie poliziesche avvincenti. La prima, “Senza sapere quando” di Carlotto, è di singolare debolezza e, pur non difettando di un certo ritmo, soffre di un finale affrettato e di personaggi che agiscono secondo logiche quantomeno eccentriche; va meglio “La triade oscura” di De Cataldo, un giallo semplice e semplicistico, ma dal finale parzialmente imprevedibile; la storia più intensa e meglio realizzata è però l’ultima, “Sara che aspetta” di De Giovanni, che all’interno di una struttura collaudata, ma sempre efficace, mette in scena personaggi vivi e convincenti.
Una volta terminata la lettura, riesce difficile capire in che cosa consista la pretesa di raccontare l’Italia del nostro tempo: certo, i personaggi si danno a un compiaciuto turpiloquio, ci sono collegamenti alla Rete, telefonetti, rapporti promiscui e famiglie disintegrate; ma l’impressione, più che di camminare fra centro e periferia delle nostre città, è di leggere un editoriale del Corriere uscito dalla penna di Massimo Gramellini o Aldo Cazzullo. Il sentore latente si palesa con prepotenza nel racconto di De Cataldo: già la presentazione nel risvolto di copertina, che parla di “magma ribollente della rete telematica, tra le pieghe più segrete del dark web, laddove alligna l’odio che consuma il Paese”, non fa niente per non suonare ridicola. Al di là del fatto che l’idea di dark web che emerge dal racconto è proprio quella che può avere un editorialista del Corriere (cioè YouTube e un forum in cui gli utenti scrivono “io odio i negri”), la presentazione del cattivo sembra uscita da un cinegiornale di propaganda: ben sei pagine sono usate per dirci che costui odia le donne, gli omosessuali, i politici, i magistrati, i sindacalisti, gli stranieri, gli zingari… e fin qui non siamo ancora nel campo delle barzellette. Il capolavoro è l’ultima categoria: “i professori”. Cioè, citiamo: “medici, fisici, astronomi, architetti, commercialisti, ingegneri […]. Li odiava perché una volta s’erano rubati, chissà come, un pezzo di carta e da allora se la rivendevano che solo io so, solo io posso dire, solo io posso fare [segue filippica di una pagina e mezzo che omettiamo]”.
Un ottimo spunto, questo sì, su un tema di attualità: il dibattito se la scienza sia o no democratica. Ne hanno parlato proprio qualche giorno fa su queste stesse pagine Michele Mocciola e Massimiliano Peroni, mostrando come la questione sia sovente affrontata in maniera illogica ed emotiva anche da parte di coloro che proprio per sé reclamano logica e raziocinio. La caricatura effettuata da De Cataldo, che nel corso del racconto si tinge anche di richiami al neonazismo e a Yukio Mishima (notoriamente la stessa cosa), è perfetto saggio di questo procedimento deleterio che, anziché risolvere il problema, preferisce squalificare l’interlocutore. Il risultato che si ottiene non è altro che un inasprimento del dibattito: chi condivide i presupposti della caricatura ammicca, chi ne è colpito reagisce radicalizzando la propria posizione. Un esempio scolastico chiarifica al meglio il concetto: se uno studente, erroneamente, contesta o rettifica l’interpretazione di un passo, di un’opera o di un fenomeno avanzata dal docente e quest’ultimo, anziché aiutarlo a esporre compiutamente la sua opinione per guidarlo a decostruirla, urlasse: “Ma che vuoi saperne, imbecille. Io traducevo Eschilo quando tu neanche eri un feto” (tono, lessico e argomenti tutt’altro che infrequenti negli interventi di alcuni celebri “professori”, soprattutto in rete), tutti, quorum De Cataldo, direbbero che si tratterebbe di un pessimo insegnante; mentre quasi nessuno sottolinea che è proprio questo l’atteggiamento più comune tra le persone che, in virtù della loro autorità e competenza, non dovrebbero, al contrario, cedere all’insulto e alla derisione.
Nell’affrontare tale questione, il racconto di De Cataldo non si mostra all’altezza delle analisi della realtà di cui il genere giallo. Dostoevskij direbbe: “Niente di più facile che condannare un malvagio, niente di più difficile che capirlo”. Ad ogni modo, ne “La triade oscura” non mancano sapide inesattezze: insomma, Giancarlo, ci propini un’omelia di pagine e pagine per dirci che dobbiamo fidarci di chi è competente e sa le cose e poi nella prima pagina metti in mano alla tua poliziotta una “Beretta calibro 9×21 d’ordinanza”: il 9×21 è un calibro diffuso quasi solo in Italia ed esclusivamente per uso civile, in quanto ai cittadini non è concesso detenere armi corte nel medesimo calibro di quelle delle forze dell’ordine, ossia il 9×19. Un errore non da poco per uno scrittore che fonda la credibilità dei propri gialli sul lavoro da magistrato (o forse dovremmo dire “professore”?).
Chiudiamo il volume, con la sempre crescente convinzione che dopo Scerbanenco il giallo italiano non abbia più niente da dire. D’un tratto, però, capiamo di aver sbagliato tutto. Discorsi infarciti di parolacce, disprezzo per gli interlocutori e persone che compiono scelte assurde: Sbirre è davvero un impeccabile ritratto del nostro tempo.
Matteo Verzeletti