Domanda: Su Ossi di seppia con poche, necessarie parole, arte nella quale Lei ha dimostrato d’essere Maestro, non soltanto per me, ma per tutti i lettori di poesia, vorrei sentire il Suo parere…
Risposta: Quando cominciai a scrivere le prime poesie degli Ossi di seppia avevo certo un’idea della musica nuova e della nuova pittura. Avevo sentito i Ministrels di Debussy, e nella prima edizione del libro c’era una cosetta che si sforzava di rifarli: Musica sognata. E avevo scorso gli Impressionisti del troppo diffamato Vittorio Pica. Nel ’16, nel 1916, avevo già composto il mio primo frammento tout entier à sa proie attaché : «Meriggiare pallido e assorto» (che modificai più tardi nella strofa finale). La preda era, s’intende, il mio paesaggio.
D: Quale idea allora di poesia …
R: Ero consapevole che la poesia non può macinare a vuoto … Un poeta non deve sciuparsi la voce solfeggiando troppo … Non bisogna scrivere una serie di poesie là dove una sola esaurisce una situazione psicologicamente determinata, un’occasione. In questo senso è prodigioso l’insegnamento di Foscolo, un poeta che non s’è ripetuto mai.
D: Già nel Suo primo libro poetico Ossi di seppia Lei mostrava insofferenza verso un modo italico di fare poesia.
R: Scrivendo il mio primo libro ubbidii a un bisogno di espressione musicale. Volevo che la mia parola fosse più aderente di quella degli altri poeti che avevo conosciuto … All’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a rischio di una contro eloquenza.
D: In Ossi di seppia si sente dappertutto il mare, un mare in contrasto con la lingua di allora …
R: Negli Ossi di seppia tutto era attratto e assorbito dal mare fermentante, più tardi vidi che il mare era dovunque, per me, e che persino le classiche architetture dei colli toscani erano anch’esse movimento e fuga. E anche nel nuovo libro ho continuato la mia lotta per scavare un’altra dimensione nel nostro pesante linguaggio polisillabico, che mi pareva rifiutarsi a un’esperienza come la mia … Ho maledetto spesso la nostra lingua, ma in essa e per essa sono giunto a riconoscermi inguaribilmente italiano: e senza rimpianto.
D: E su Le Occasioni …
R: Non pensai a una lirica pura nel senso ch’essa ebbe anche da noi, a un gioco di suggestioni sonore; ma piuttosto a un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli. Ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l’occasione e l’opera-oggetto bisognava esprimere l’oggetto e tacere l’occasione-spinta.
D: Esprimere l’oggetto tacendo l’occasione-spinta …
R: Un modo nuovo, non parnassiano, di immergere il lettore in medias res, un totale assorbimento delle intenzioni nei risultati oggettivi.
D: A quale frutto Lei ha pensato per Le Occasioni?
R: Le Occasioni… Erano un’arancia, o meglio un limone a cui mancava uno spicchio: non proprio quello della poesia pura nel senso che ho indicato prima, ma in quello direi della musica profonda e della contemplazione.
D: Che ruolo attribuisce nella economia poetica generale della Sua poesia a Finisterre?
R: Ho completato il mio lavoro con le poesie di Finisterre perché rappresentano la mia esperienza, diciamo così, petrarchesca. Ho proiettato la Selvaggia o la Mandetta o la Delia, la chiami come vuole, dei Mottetti sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre, senza scopo e senza ragione, e mi sono affidato a lei, donna o nube, angelo o procellaria. Si tratta di poche poesie, nate nell’incubo degli anni ’40-42‘, forse le più libere che io abbia mai scritte.
D: Accantonando per ora l’autoritratto diciamo “trasposto” di Arsenio e il poemetto-monologo potremmo dire “raziocinante” de I limoni, ricordo che Lei esordisce in un momento problematico, difficile per la poesia.
R: Sentivo di esordire in un clima e in un momento non facili per un poeta. Eravamo agli inizi degli anni ’20 del Novecento e si avvertiva la necessità di dover dare subito una idea forte del proprio stile e anche di se stessi.
Ma in me non ci fu mai una infatuazione poetica, né alcun desiderio di ‘specializzarmi’ in questo senso. In quegli anni quasi nessuno si occupava di poesia e l’ultimo successo in quei tempi di cui abbia ricordo fu Gozzano.
D: Gozzano. Ma gli spiriti forti di allora …
R: Ma gli spiriti forti di allora dicevano male di lui e (a torto) anche io ero di quel parere. I letterati migliori di quegli anni, che presto si riunirono intorno alla “Ronda”, sostenevano che la poesia dovesse scriversi da quel momento in poi in prosa. Né dimentico che pubblicati i miei primi versi nel Primo Tempo di Giacomo Debenedetti fui accolto con ironia dai miei pochi amici, già immersi nella politica e, dal più al meno, già antifascisti, verso il ’22- ’23.
D: Potremmo dedurne che difficoltà di situazione generale e insufficienza di fede nella auto-identificazione specializzata di poeta si sommano in coincidenza dei Suoi esordi in poesia.
R: Deduzione pienamente corrispondente alla verità dei fatti. Includerei soltanto quella che la psicologia definisce «identificazione con l’aggressore».
D: Intuisco il senso di ciò che dice ma può per noi essere più chiaro?
R: Sulla «Identificazione con l’aggressore»? Direi così: se gli altri tendono a fare della ironia sul fatto che scrivo poesie, sarò io stesso a scriverle in modo da far sentire sfiducia e ironia su me stesso e anche sui poeti e sulla poesia in generale, almeno per come è volgarmente, comunemente intesa…
D: La sterminatezza, l’enormità quantitativa della letteratura critica che riguarda la Sua poesia…
R: Le rispondo così: troppo spesso piove sul bagnato, ma ora diluvia.
D: È nota a tutti la Sua in-disposizione verso l’altrui poetare … Ma oggi, dopo di Lei naturalmente,
chi considera il poeta maggiore o più semplicemente il poeta più importante …
R: Uno ci sarebbe … Anche se non si capisce nulla … Non è il caso di farne il nome.
D: Il poeta (lo nomino) pensando a Lei ha scritto. «Ciascuno ha il suo Montale/ ritagliato a misura./Vale quello che vale,/secondo natura e statura».
R: Non lo conosco.
D: Su La Bufera torniamo in un secondo momento, se Lei è d’accordo. Ora mi intriga di più sentire da Lei stesso, dalla Sua viva voce, cosa è successo alla Sua poesia, cosa si è verificato nel Suo fare poetico, dopo Satura … Per la Sua e per la poesia italiana del dopo-Satura, se non altro perché Lei stesso ha dichiarato: «Satura. Ho scritto questo libro per prendere in giro tutti, soprattutto i critici che notoriamente non capiscono niente di poesia».
Visibilmente contrariato Montale non risponde, alza lo sguardo distratto verso il lampadario, poi si alza di scatto e mi indica la porta invitandomi a uscire.
Gino Rago
Gino Rago nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Sue poesie sono presenti nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa Poeti del Sud (EdiLazio, 2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016). È nella Redazione de L’Ombra delle Parole. Collabora con la Rivista cartacea Il Mangiaparole.
a Michele M. e alla Redazione de I Sorci Verdi
il mio “Grazie” per la ospitalità che onora il mio lavoro
Gino Rago
Ero straniero
E mi avete accolto.
Ho avuto fame
E mi avete dato il pane.
Ho avuto sete
E mi avete acqua
Ero nudo
E mi avete vestito.
Ero nella malattia
E mi avete visitato.
Ero in carcere
E siete venuti a trovarmi.
Ero nel buio
E avete acceso una candela.
Ero sotto il peso della Croce
E Michele ha evitato la caduta.
Michele M., il mio Cireneo.
Il suo gesto estetico fa ingresso nella Storia.
(gino rago)
3° distico, riproposto in forma corretta:
“Ho avuto sete
E mi avete dato acqua.”
(gino rago)
Un tentativo di Polittico Ipoveritativo in Distici
[a Lorenzo Pompeo, a Michele Mocciola, a Marina Petrillo, a Donatella Costantina Giancaspero,
e a chi come loro scrive con la luce.]
Buona Pasqua a tutti/tutte
Gino Rago
Cosa è la verità…
[…]
A pagina 55 del suo cemento armato
Lorenzo Pompeo domanda: “cos’è la poesia?”
Una immagine. Forse vale più di cento parole.
Ma la tortora presa nella foto poi continua il suo volo.
Foto-grafia. La trasparenza d’una foglia,
la Bellezza d’una schiena,
La verità del vivere in una forma di conchiglia,
Nelle formiche sul tronco di un albero.
Il bianco e nero, troppo carico di senso,
Il colore de-drammatizza
nella permanenza dell’ alleanza-scontro con la luce.
Una foto. Un luogo, un rito, una ruga, un evento.
Una storia. Lo stato dell’anima nella luce del tempo.
Tutti i dipinti, tutta la storia dell’arte sullo sguardo in croce di Cristo
il fotografo-poeta scambierebbe con una foto,
una foto soltanto del Suo volto.
[…]
Un dismatriato della fratria.
La sua ombra in sogno:
«Ero straniero
E mi avete accolto.
Ho avuto fame
E mi avete dato il pane.
Ho avuto sete
E mi avete dato l’acqua.
Ero nudo
E mi avete vestito.
Ero nella malattia
E mi avete visitato.
Ero in carcere
E siete venuti a trovarmi.
Ero nel buio
E avete acceso una candela.
Ero sotto il peso della Croce.
Michele ha evitato un’altra mia caduta».
Michele Mocciola il Cireneo.
Il buon Samaritano nella com-passione.
Il suo gesto fa ingresso nella Storia.
Pasqua rimuove le màcine a ogni sepolcro.
Vesti senza cuciture sulle pietre.
La luce mette ali al sudario.
Le mani del pastore odorano di pecore.
[…]
Marina scrive con la luce. Gioca con le ombre
Collabora in silenzio con il sole.
La cosa da sola non è niente, l’oggetto meno di niente
Senza luce né tempo.
La luce nel tempo tras-forma. Nobilita.
Glorifica anche il volto di Pasolini
Da solo in una notte
Sui bordi d’un prato senza erba…
Marino Petrillo. La volontà da imporre
A miliardi di molecole di luce inconsapevoli.
Azzurrità verticale. Creatura creante.
Materia redenta.
[…]
Vicino a un grande specchio
Nella foto di Degas si vede Mallarmé.
E’ in piedi contro il muro.
Renoir è sul sofà.
Nello specchio (come fantasmi)
Lo stesso Degas ( con la sua camera )
E la moglie di Mallarmé (con sua figlia).
Paul Valery entra dopo lo scatto.
Ora guarda la stampa che Degas gli ha regalato:
“Il prezzo di questa opera d’arte?”
Nove lampade a gas
E un istante di completa immobilità.
Donatella Costantina Giancaspero fotagrafa
La foto di Degas.
Pone sulla stessa linea di mira mente,occhi e cuore.
Trattiene il fiato e scatta.
Nella foto della foto di Degas
Donatella Costantina ha messo tutto.
I libri. I viaggi. Gli amori.
Gli appuntamenti mancati. Le promesse mantenute.
[…]
Avanza in silenzio. Non impugna il gladio.
Pilato si fa largo tra la folla.
“Tu dici di portare la verità al mondo.
Cosa è la verità…”
Nessuna risposta. L’acqua in un catino.
Ponzio Pilato si lava le mani.
“Padre perché mi hai abbandonato.”
Tutta la terra trema.
In tre dividono la tunica.
Poi uno squarcio. La luce.
Barabba in Galilea ruba polli.
Si ubriaca. Sgozza agnelli.
(gino rago)
Se a tratti scompare ad enfasi di sogno
quell’io squarciato a nebbia..
Circoncisione astratta scavata
tra turbinii di spietati gesti.
Improvvisa, nel pallore di un tratto
trova in sé rifugio Armonia
respiro tepido
inalato a fruscio di silenzio
fiotto carminio
esasperato in plumbea notte.
Muti appaiono
ad antichi destini avvinti
i segni a chiodo infissi.
Coglie la visione
l’animo desto in diurno sogno
se dell’identità sia smarrita memoria
il ciclo dell’eterna rinascita.
In lampi oltre materia
appare salvifica la fine
che ama se stessa
e al vuoto dell’alba tace ogni inizio.
(da Tabula Animica)
Ringrazio infinitamente il poeta Gino Rago per la sensibilità del suo commento. Per l’ombra trasmutata in luce. Il silenzioso battito che crea armonia nel caos dell’eterno ritorno.
OMAGGIO A PIER PAOLO PASOLINI
Vide dell’oscura nebbia
il volto
di cui mai ebbe vanto
né perdono.
Percorse a ritroso
la strada dei morenti
giacendo accanto
alla sua ombra apocrifa.
Scese nell’Ade sfidando
a dadi la sorte
su marciapiedi presaghi
del futuro inganno.
Cadde alfine ai piedi
della Sacra Montagna
ad onta di Poeta vilipeso.
Non ebbe in lui fecondo verso
la rosa
né patì dell’amore l’obliqua ombra.
Se fu notte tacque
ai margini di un prato.
Al risveglio solo Pier Paolo,
in rugiada avvolto.
Marina Petrillo
Marina Petrillo
Ho desiderato e/o inteso organizzare il mio colloquio (immaginario), con l’Eusebio nazionale nel tentativo di fornire un contributo ancorché minimo a una ‘lettura’ consapevole del nostro Novecento poetico, partendo dal saggio:
Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013) Ed. Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2013, pp. 148 € 14
(cui ho affiancato certi studi davvero acuti sul nostro Novecento di Alfonso Berardinelli).
E dal saggio linguaglossiano sul Dopo-Novecento estrapolo un passaggio centrale che riporto:
“«[…]
Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia
[…]
L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini.
[…]
In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica.
Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo
[…]
Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione. »
Sono parole di Giorgio Agamben (in Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114)
Tra gli stereotipi più persistenti che hanno afflitto i geografi (e i geologi) della poesia italiana del secondo Novecento, c’è quello della ricostruzione dell’asse centrale del secondo Novecento a far luogo dalla poesia di Zanzotto [ «Signore dei significanti» come Montale ebbe a definirlo]..”
Ecco perché Montale su “Satura” e soprattutto sul “dopo-Satura” preferisce fare il vago interrompendo il colloquio immaginario con l’intervistatore…
(Colgo l’occasione per ringraziare Marina Petrillo per il suo fine contributo poetico)
(gino rago)