Ospitiamo l’iniziativa della libreria FLORVILLE – GIARDINO LETTERARIO di Brescia: un ciclo di audioletture dalla letteratura di tutto il mondo, di tutti i tempi, per dilettarci in questo periodo di quarantena.
Questo primo appuntamento si lega al Dantedì 2020, la prima edizione della giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri.
Il nostro lettore Mister M. ha letto i versi 22-69 del Canto III dell’Inferno della divina Commedia, dedicati a una categoria molto peculiare di anime: gli ignavi o pusillanimi, coloro che in vita non scelsero né il bene né il male, pensando soltanto a sé stessi, sprecando la libertà. Pertanto, sono destinati all’Antinferno, l’anticamera dell’Inferno, nemmeno degni di stare tra i dannati, sdegnati anche dalla schiera dei malvagi; costretti, per contrappasso della loro inazione esistenziale, a un eterno lamentarsi e girovagare a vuoto, seguendo un’insegna qualsiasi, punzecchiati dagli insetti, tormentati dai vermi. Sorta di simbolico capostipite degli ignavi è il più noto tra i vili, Ponzio Pilato, il procuratore della Giudea che si lavò le mani sulla condanna o assoluzione di Gesù Cristo (preferiamo questa identificazione del misterioso personaggio a quella con Celestino V, il Papa che abdicò al suo ruolo).
Sotto, il testo integrale della lettura.
La Redazione
Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,
per ch’io al cominciar ne lagrimai.
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.
E io ch’avea d’orror la testa cinta,
dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’è che par nel duol sì vinta?».
Ed elli a me: «Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli».
E io: «Maestro, che è tanto greve
a lor che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ‘nvidïosi son d’ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa».
E io, che riguardai, vidi una ‘nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d’ogne posa mi parea indegna;
e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch’i’ non averei creduto
che morte tanta n’avesse disfatta.
Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.
Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta de’ cattivi,
a Dio spiacenti e a’ nemici sui.
Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch’eran ivi.
Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto.