Più che altro, una poesia

Roberto Bolaño
Ci siamo conosciuti quando ancora non sapevo bere. Grazie all’imprevedibilità della tua sofferenza solitaria, al tuo abitare da esule questo mondo, per riempirlo con i fiumi della tua poesia, ho imparato ad ancorarmi agli scogli della letteratura senza aver paura di scivolare. Ho ammirato la tua continua ricerca di fuga, il bisogno di lasciare indizi per la curiosità di realizzare quali folli avrebbero potuto seguire le tue tracce: i motivi non erano importanti, è sempre contata la presenza. Avere al tuo fianco i fantasmi di tutti gli scappati di casa che, come te, sono vissuti nella convinzione che la letteratura fosse un capriccio partorito dalla storia d’amore fra realtà e finzione. Il sorriso della sconfitta quotidiana stampato in faccia, cedere alla felicità di essere sfuggito al mondo per un attimo, di fermarsi davanti al mare senza pensare a chi, in quel preciso istante in un punto non precisato del globo, potesse aver premuto il grilletto. Restava solo il partecipare di quel dramma. Come se il lavoro della vita fosse quello di tenere la mano a chi sta per morire, pallido e madido di sudore, ringraziando il cielo di non essere tu a rantolare. La casualità premeditata di un perdigiorno che sogghigna sotto il sole rovente, avendo trovato anche oggi un obiettivo per rimandare la decisione di fare sul serio. E invece quelle parole scritte su un tovagliolo abbandonato in una tavola calda sporca e anonima, si legheranno al sangue di chi ti ha seguito fino a lì. Sono arrivato fino a qui, ho perso ogni traccia, forse piangerò. In una vetrina di fronte, passa un riflesso fugace: un bambino di cinquant’anni con gli occhiali tondi che gioca a fare lo scrittore perché di qualcosa bisogna esaurirsi, spegnersi. E quel riflesso è il mio amuleto.
2666 auguri, maldito.

 

Mattia Orizio

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