Il cartellone C.T.B. di Brescia salta nel vuoto e porta in scena un capolavoro della letteratura senza tempo: Le relazioni pericolose di Laclos. Rischio non da poco di fronte ad un romanzo che, confezionato da Lettere, non ha una trama tradizionale ma soltanto ricostruzioni unilaterali dei singoli protagonisti (ogni personaggio è protagonista della sua versione e non ci sono perciò comprimari né tantomeno comparse); non ha dialoghi (quelli a distanza sono soliloqui); non ha luoghi da riprodurre (ambienti domestici, fittizi spazi aperti), ma al più scrittoi e penne d’oca (se conserviamo l’ambientazione del ‘700).
L’allestimento proposto da Elena Bucci e Marco Sgrosso sicuramente supera con una certa brillantezza i primi scogli offrendo uno spettacolo serio, rispettoso, documentato, e perciò godibile. Anche l’ignaro spettatore a digiuno del romanzo sarà affascinato dalla scenografia di pannelli che si aprono e chiudono insieme agli sviluppi dell’opera, dai colori di quei pannelli che creano un luogo non identificato ma neppure di fantasia (siamo qui, ora, vestiti in modo strano, a parlare di come trattare l’Amore), dalla musica, mai invadente, scelta con gusto (riconosco lo splendido Marin Marais) e che segna le tappe della vicenda in modo consono, e dall’accorto e sofisticato utilizzo delle luci che chiudono il cerchio della messinscena.
Le svolazzanti penne d’oca risaltano il connotato epistolare del romanzo e nel contempo restituiscono il tocco dell’ironia letteraria, specie quando a sbandierarle è Gaetano Colella, poliedrico nei panni dello scrittore e di tutti i personaggi che non siano Lei (la Marchesa), Lui (il Visconte) e l’Altra (la Presidentessa).
La selezione delle Lettere è inappuntabile, perché consente (sempre all’ignaro spettatore) di avere la precisa idea di ciò che accade, di ciò che i protagonisti vogliono e pensano, ed è in sintonia con la sintesi perseguita dagli autori della trasposizione; la citazione di Baudelaire rinvia ad uno studio rigoroso; e ci pare di avere colto una mimica facciale che rende omaggio all’insuperabile film di S. Frears.
Ma qualcosa si perde, e non è tutto rose e fiori. E resta un po’ di amarezza per una messinscena che ha il sapore dell’incompiuta.
La frenesia recitativa, frequente specie nella Marchesa (Elena Bucci), allontana dal ritmo riflessivo impresso al romanzo dalla profondità del pensiero di Lei, rendendola talvolta civettuola; rischio per fortuna scongiurato in occasione della Lettera 81, passaggio imperdibile dell’opera.
Dal canto suo, l’interpretazione sia della Marchesa che della Presidentessa, affidata alla stessa attrice, uniforma i personaggi a discapito di quest’ultima che si presenta scialba, sottotono, e il suo dilemma tra fede e passione illanguidisce, scolora.
Il finale resta un mistero, eccentrico e fuor di luogo. Inappropriato.
Ma sopra ogni altra cosa la messinscena sacrifica, purtroppo, il fraseggio del romanzo (la sua estetica) per privilegiare l’intrigo, le trame, i tradimenti, che sono soltanto una conseguenza di quel fraseggio. La paura di annoiare il pubblico senza una narrazione stringente aleggiava sopra le nostre teste, eppure avremmo preferito un doppio salto nel vuoto perché – ne siamo convinti – la Letteratura (e con essa la Lingua) deve rientrare di prepotenza nel Teatro per riportare lo spettatore al fascino del discorso che, se anche non convince, può impadronirsi di noi.
Il finale resta un mistero, eccentrico e fuor di luogo. Inappropriato.
Ma sopra ogni altra cosa la messinscena sacrifica, purtroppo, il fraseggio del romanzo (la sua estetica) per privilegiare l’intrigo, le trame, i tradimenti, che sono soltanto una conseguenza di quel fraseggio. La paura di annoiare il pubblico senza una narrazione stringente aleggiava sopra le nostre teste, eppure avremmo preferito un doppio salto nel vuoto perché – ne siamo convinti – la Letteratura (e con essa la Lingua) deve rientrare di prepotenza nel Teatro per riportare lo spettatore al fascino del discorso che, se anche non convince, può impadronirsi di noi.
Michele Mocciola