Non è un thriller, perché l’elemento poliziesco non ha una soluzione nemmeno implicita; non è un film sentimentale o romantico, perché di storie d’amore, come le vorremmo, non vi è alcuno spunto; non è un film comico, perché i sorrisi servono solo a stemperare la tensione; non è un film d’impegno sociale o di denuncia, perché l’intolleranza è troppo esplicita per esserne il tema di fondo. E questo commento non è uno spoiler perché in fondo c’è poco da rivelare di un film che parte chiaro (Mildred affitta tre grandi spazi pubblicitari per protestare contro la polizia che non ha arrestato ancora nessuno per il brutale omicidio della figlia Angela), prosegue senza un’apparente direzione tra accadimenti di vario tipo originati da tratti caratteriali purulenti di due personaggi (Mildred=Frances McDormand e Jason=Sam Rockwell), e finisce con un’inquadratura su entrambi che, dentro un’auto in cammino, riflettono sul da farsi.
L’unica traccia del leitmotiv del film è una frase scritta sopra un segnalibro; lo rivela un personaggio molto molto secondario, sul finire della sceneggiatura. È una ragazza assai giovane che confonde terminologicamente il gioco del polo, quello che si fa con i cavalli (e i cavalli compaiono nel film) con la polio (la malattia). All’inizio la giovane ed ingenua ragazza pare spacciarla per un suo pensiero, ma con qualche imbarazzo ammette che era scritta nel libro, anzi sul segnalibro. La frase è: la rabbia genera rabbia.
Tre manifesti a Ebbing, Missouri, è inequivocabilmente un film sulla rabbia. Che si annida dovunque, ad esempio in un veloce scambio di battute tra madre e figlia entrambe alterate, in un rapporto famigliare che ci sfugge di mano, nell’ingiustizia della vita che ci regala eventi poco felici (la morte), nell’incomprensione dei nostri veri desideri. La rabbia di Tre manifesti è uno stato emotivo dai molti affluenti che lo rendono un fiume in piena, fuori della ragione. Il fiume-rabbia coinvolge chiunque, uomo o donna che sia, e travolge chiunque, a prescindere da colpe e responsabilità reali, perché non ha il senso della giustizia, della misura. Spegni il fuoco della rabbia, dice il titolo di un noto e risalente testo di Thich Nhat Hanh, e nel film c’è il fuoco che deforma la stessa rabbia che lo ha generato, e prova a trasformarla, quanto meno in una riflessione. Ci rifletterò strada facendo, dice il personaggio, prima che il cinema diventi buio.
Michele Mocciola